La persona di Bill Callahan è oramai da quasi vent’anni un importante punto di riferimento per tutta la scena musicale americana. Dopo gli inizi con sperimentazioni lo-fi su un quattro piste, negli anni si è fatto conoscere soprattutto per le sue perle di folk nudo e lucido, il folk tradizionale, che vuol dire anche e soprattutto blues, impiantato in ogni granello di terra del Maryland e che ha scavato ogni ruga della sua voce baritonale densa, abissale ed avvolgente e che è impossibile da rendere vivo senza il suono di una chitarra acustica. Abbandonato il monicker Smog, pubblica il secondo disco a nome Bill Callahan. E non che sia cambiato molto o chissà quale strabiliante innovazione abbia proposto, perché sempre di folk si tratta. Ma è stupefacente sentire quei trenta secondi di arpeggio di chitarra acustica dell’iniziale Jim Cain e poi essere ancora atterrati da quella voce così profonda da arrivare al cuore in un baleno per poi espandersi in tutta la cavità toracica, così calda da farti bruciare dentro il fuoco che rischiara la bellezza tra la leggiadria perduta dei violini. È impossibile non pensare a Leonard Cohen. Ma Sometimes I Wish We Were An Eagle è molto più che un album folk; è un album che il folk sa trascenderlo, sa trasformarlo con moderazione, sa renderlo proprio con l’eleganza modesta dei grandi di sempre. Il buio, il cielo oscurato e la pioggia, la malinconia, l’abbandono si alternano con raggi di sole che rischiarano il cielo limpido e le gialle distese di terra infuocate, in armonica sequenza, senza avvertirne il distacco, creando quell’orizzonte emozionale che solo la maturità e la profondità di scrittura acquisite con l’esperienza colta in tutti i suoi aspetti sanno rendere. Il retaggio invernale di Too Many Birds e i lampi rischiaranti di timida primavera di Eid Ma Clack Shaw con gli archi maestosi e solenni a marcare la strada degli accordi di piano accompagnati da splendidi fiati setosi e carezzevoli, fino al ritmo elettrico ed incalzante di All Thoughts Are Prey To Some Beasts. The Wind and the Dove racchiude incredibilmente in sè tutta l’intensità ruvida del folk tradizionale, la dolcezza lievemente sorridente della melodia, le suggestioni orientaleggianti. Un gioiello. Il punto di forza di questo album è la varietà dell’orchestrazione splendida e consapevole degli archi (arrangiati da Brian Beattie) che sanno donarsi nella loro giusta quantità ad ogni brano, facendosi maestosi, sinuosi, leggiadri, tenebrosi e la sua voce unica a rendere il tutto irripetibile. Tuttavia retaggi di quel folk minimale, schietto e sincero si mostrano ancora in tutto il loro intimismo riflessivo in cui è la voce a spiccare per raccontare le sue storie (Rococo Zephyr, My Friend). Invocation of Raciotionation spiazza del tutto facendosi intermezzo strumentale estemporaneo e psichedelico prima della conclusiva Faith/Void, splendido sogno onirico modulante in tutti i suoi nove minuti di durata: “It’s time to put God away!”.
Ancora la classica naturalezza nell’essere così sensibilmente profondi che soltanto i grandi songwriter di sempre hanno, nudi e sinceri come le proprie melodie.
Credits
Label: Drag City – 2009
Line-up: Bill Callahan
Tracklist:
- Jim Cain
- Eid Ma Clack Shaw
- The Wind And The Dove
- Rococo Zephyr
- Too Many Birds
- My Friend
- All Thoughts Are Prey To Some Beast
- Invocation Of Ratiocination
- Faith/Void
Links:Sito Ufficiale,MySpace
album stupendo! con un Bill Callahan, seppure in maniera sottesissima, in stato di grazia… ad oggi il disco di alt-country più bello del 2009!!!
incantevole! recensione lucidissima:)