Capita di percorrere andata e ritorno in sole 33 ore di autostop tra mezza Italia e Croazia per un documento d’identità scaduto. Capita di scrivere pagine intense di musica indipendente di stampo internazionale come i Caboto, Franklin Delano, Blakeeee e 4fioriperzoe ma tutte non focalizzano la tua intimità compositiva. Capita di rinascere cantautore e di sfidare con una chitarra acustica ed arrangiamenti folk sperimentali la tradizione della canzone pop. Tutte queste coincidenze sono Marcello Petruzzi aka 33ore. Con il suo disco d’esordio Quando vieni ha mostrato di poter far parte della nuova schiera di giovani cantautori italiani. Forse negli anni settanta sarebbe stato l’alter-ego di De Gregori o una manciata di anni fa dello svedese Josè González. Per ora, in punta di piedi, si racconta a LostHighways. (Quando vieni e Per quanto mi mancherai sono in streaming autorizzato)
Esperienze con Caboto, Franklin Delano, Blakeeee e 4fioriperzoe. Com’è nata, invece, quest’esigenza di un progetto solista? Quali di queste precedenti esperienze ha più influenzato 33ore?
In effetti aver vissuto le due esperienze principali dei Caboto e dei Franklin Delano e le altre collaborazioni come quella con i 4fioriperzoe mi ha lasciato un passato ricco di strade variegate, a partire dalla capacità del primo gruppo di non limitarsi ad un solo genere musicale: ogni influenza era introdotta per essere rimescolata in improvvisazioni e suggestioni. Con i Franklin Delano invece ho trovato modo di rimettermi nel discorso della centralità dello stile che sposta l’esibizione sugli aspetti più evocativi e romantici lontani dai virtuosismi.
Tuttavia i primi passi con 33 ore, contemporanei alla mia attività nelle band ricordate, si sono mossi fra le perplessità di chi teme di essere vittima dei propri modelli musicali. Una volta deciso a voler proseguire da solo mi sono trovato con l’opportunità di dispiegare e selezionare le possibilità sospese di tutta la musica che ho ascoltato, imparato e suonato fino a quel momento, con la conseguente e fondamentale libertà di evitare ciò che non mi convinceva, senza dover rendere conto ad altre menti. Se dunque devo parlare di influenza, la risposta pone questo limite. Negli ultimi Caboto (quelli di Hidden Or Just Gone, comunque il momento più alto della loro lirica) cercavo di operare per lasciare la corrente progressive per me non più accettabile, sperando addirittura che con i ragazzi si riuscisse a compiere una mutazione verso un’inaudita serenità di canzoni che, unite allo sguardo cinematografico tipico della band, avrebbero potuto portarci a buone forme di originalità. I Franklin vivevano a loro modo l’epilogo che li avrebbe sciolti di lì a poco poiché dopo il disco americano Paolo Iocca e Marcella Riccardi – le fonti creatrici – sapevano di essere approdati su una tradizione che li avrebbe privati della propria originalità. 33 ore insomma resta autonomo da queste esperienze.
Perché la scelta “33ore” come nome del progetto?
E’ un soprannome che mi sono portato dietro per qualche anno e non cela niente di serio e di metafisico! In breve, durante un viaggio fatto su una macchina malconcia insieme ad altri tre amici, attraversando mezza Italia, ci ritrovammo al confine con la Slovenia per andare in Croazia, ma la Slovenia non era ancora in Unione Europea ed io, avendo il documento scaduto, fui rimbalzato al confine. Dissi agli altri di proseguire e di aspettarmi in una città in Croazia, non ricordo quale, poi da Trieste tornai indietro tra autostop e treni fino a Livorno per rinnovare la carta di identità di primo mattino e ancora, senza chiudere occhio, ripresi la strada per la Croazia attraversando gli stessi luoghi a ore diverse, fra varie fatiche insomma ci arrivai e ritrovai i compagni chiusi in macchina all’alba sucessiva, ubriachi e stupiti, nel parcheggio del porto. Mi toccò anche guidare per qualche ora in più viste le condizioni.
Le tue canzoni sembrano essere appunti di vita quotidiana osservata e trasfigurata in atmosfere senza tempo. Come nascono brani come Quando vieni, Un nome e Diventi nuvola?
Le scrivi, dunque nascono, e quando sollevi la penna hanno già smarrito il tempo della loro culla. Ma non si fanno mai grandi perché in realtà non hanno ricordi, stanno lì sempre. Io che le guardo o le rileggo o più frequentemente le canto scopro di non essere mai stato in grado di spostarle da lì, anche se per quasi tutte le canzoni di Quando vieni il metodo compositivo è stato quello di tagliare e scambiare pensieri e riflessioni da un testo all’altro, o da testi che non sono diventati canzoni e non lo faranno, che la vita preme. Sono appunti di vita quotidiana come dici, prevalentemente la mia, ma è anche il mio sguardo sulle persone vicine, vicinissime o meno; sono anche isole narrative che non temono il vago, storie inventate che non saprei proseguire, che possono essere accadute ovunque perché non hanno un luogo preciso, il luogo non è mai descritto se non quello stretto visibile ad occhio nudo, sia che si tratti di un po’ di cielo visto da una finestra, sia che si tratti dei balconi di fronte, o un abitacolo.
Quanto c’è di te stesso nei testi?
In origine, molto. Molta scrittura è stata perfino terapeutica ma la furbizia è nel disincantarsi e lasciare le parole nel piccolo mondo che hanno creato attirandosi. Io però non sono il principale obiettivo di questi testi. In essi c’è il mio senso di compassione, non cristiana ma il fatto di sentire un fenomeno esterno come se appartenesse anche alle mie emozioni (in realtà sono “io” cioè le mie percezioni ad appartenere al mondo). Quotidianamente si può venire travolti da sensi delicatissimi assistendo a fatti semplici, gioie e difficoltà relative alle persone sconosciute. Queste sono le cose che mi agitano ancora anche se in superficie molte canzoni di Quando vieni possono sembrare un sillabario di tragedie intime. Credo che questa possa essere l’ovvia distorsione davanti al lavoro.
Una tua definizione di cantautore?
E’ una parola superabile. Inoltre, basterebbe “autore”, e in fondo si è musicisti. Ammetto comunque che questa domanda mi affatica. Alla portata del momento che stiamo frequentando noto che il perno è sempre sulla personalità che si esprime, come negli anni Settanta, ma non è prerogativa del “cantautorato ” e ci sono – lo dico anche se è scontato – molte differenze. L’atmosfera da ottimismo ad ogni costo travalica anche i campi in cui si dovrebbe mantenere alta l’attenzione alla musica così com’è, forse anche osando essere critici indipendentemente dai testi. C’è chi gioca con l’ironia in modo onesto, pur sapendo che si tratta di un compromesso tra i più subdoli, io però non temo le ossessioni, temo piuttosto chi le teme. Un amico poco tempo fa mi prendeva in giro sui testi che a lui parevano non dare via di fuga, dunque mi diceva che a volte si dovrebbe alleggerire il carico, ed io pure gli credo ed io pure sto visitando zone diverse dell’esistere; pochi giorni dopo però proprio lui a pranzo mi ha completamente spazzato via dicendo, mentre mangiava una mozzarella, “Vivere non aiuta”. Ecco una persona che teme. Perché dunque continuare a ridere forzatamente e fingere di non provare semmai anche un disagio, non so. Soprattutto – volevo poi arrivare a questo – c’è da riaffezionarsi al valore poetico del testo, non essere imbarazzati col fatto che un testo più cupo possa nuocere. Altrimenti dovremmo incenerire un universo e oltre di letteratura. C’è chi è pronto a farlo, interessato ben più ad un aperitivo o a un gioco di squadra, o ad una band scintillante in 2D. Il cantautore, per concludere, è uno che parla.
Come sono nati gli arrangiamenti molto particolari dei brani di tutto il disco?
L’anima risiede nel componimento spontaneo chitarra-voce mentre ho portato avanti il lavoro registrando i provini a livello domestico usando tutti gli strumenti che avevo a disposizione, tra chitarre acustiche ed elettriche, bassi, armoniche a bocca, piccole percussioni, sovrapposizione di cori, una tastiera MIDI con cui ho definito le linee per altri strumenti non in mio possesso. Mi piace creare scenari completi. Una volta entrato in studio con Matteo Romagnoli c’è stata un’altra evoluzione per far maturare gli arrangiamenti, raffinando le parti ritmiche con le batterie e le parti melodiche assegnate agli strumenti appropriati come fiati, archi, tastiere e pianoforti dal suono unico e inimitabile.
Ti senti più vicino al folk o al pop come cifra stilistica della tua musica?
Credo di tendere più verso il pop, con obiettività non certo un risultato universalmente fruibile.
Quale dei cantautori della nuova generazione dell’underground italiano e straniero ti ha colpito di più negli ultimi anni?
Nel panorama della musica italiana i Massimo Volume negli anni Novanta mi hanno certamente colpito e ho avuto poi la fortuna di stringervi amicizia e di avere esperienze musicali con alcuni di loro. Oggi certamente va lodata la forza catartica di alcune canzoni di Vasco Brondi, mi piacciono i Buzz Aldrin e gli amici Father Murphy, nonché i Blakeeee con cui collaboro in questo periodo. Dall’estero ascolto Josè González. Poi non saprei, mi appassiono come sempre a cose di tempi lontani. Il mio background è sostanzialmente esterofilo ma sto scoprendo eccellenze anche italiane, passate.
33Ore è un progetto solista isolato o è l’inizio di una nuova strada artistica?
33 ore è la musica che scrivo e che suono adesso, assolutamente in divenire. Nel frattempo possono nascere nuove collaborazioni o riprese, dipende dal tempo, ma ho molto da fare con questo progetto solista e sono già al lavoro su un disco nuovo che mi rende felice.
Cosa ne pensi dello stato della musica indipendente in Italia?
Siamo in un trauma che investe il sistema musicale nel suo complesso e in ambito indipendente riduce le possibilità, non so però quanto sia più fragile questo ambito rispetto ai muri dei corridoi del mainstream. Io sono fiducioso in una ripresa di iniziative, considerato il fatto che sfugge anche a me il come, che dovrà contare anche su un ingrandimento e un miglioramento del pubblico, un rinnovato interesse alla qualità, alla sperimentazione, al lavoro di studio degli artisti, alla cultura propria che viene da qui, che deve essere preservata e non influenzata, peggio ancora condizionata stilisticamente, dal miraggio di raggiungere una audience più vasta. Dalle arti visive dovrebbe essere attinta la modalità coraggiosa del fare: l’arte genera disturbo, come nella musica italiana gli Ovo e pochi altri insegnano. Altrimenti è più redditizio vendere magliette con Topolino.
Quanto è facile o difficile trovare date live per progetti come il tuo in Italia?
Con il supporto della stampa che si è interessata al mio primo disco le cose stanno migliorando, restano per ora alcune difficoltà organizzative ad esempio la preparazione di un calendario omogeneo di date così da ammortizzare le spese sempre più alte che interferiscono molto sul venirsi incontro tra artista e ospite. Per non perdere occasioni ho a disposizione tre set diversi: da solo, in duo con un sax baritono, e in band con quattro elementi. Finora le date le ho trovate tramite il lavoro “di famiglia” svolto dall’etichetta Garrincha Dischi e da contatti preesistenti, ma di recente ho intrapreso una collaborazione con un’agenzia di concerti di cui mi fido quindi nel prossimo inverno potrò fare una nuova stima.
Gli ultimi cinque dischi a cui ti senti più legato?
Dischi dei Beach Boys come Friends e Pet Sounds, ancora e sempre i Beatles con Revolver (ma mi sto limitando), il disco solista di Mark Hollis, Captain Beefheart.