C’è una band milanese che porta in giro ancora il verbo del punk e del blues cantato in italiano. Questi sono i Guignol il cui ultimo ultimo disco Rosa dalla faccia scura ha incontrato i favori della critica. Da pochi mesi è uscito il loro nuovo EP Canzoni dal Cortile in free-download sul loro sito ed ancora una volta denuncia una certa originalità. In loro vivono le anime del cantautorato italiano che parla dei vinti sporcato di chitarre punk-blues. LostHighways intervista il leader Pierfrancesco Adduce.
Il nome della vostra band è legato alla marionetta ideata dal burattinaio Laurent Mourguet, raffigurante un operaio dell’industria serica di Lione, noto per l’irriverenza e la tenacia con cui difendeva i propri diritti scornando inevitabilmente i “potenti”?
Sì, finalmente qualcuno che fa cenno alla marionetta di Laurent Morguet! Il nome viene da li’, dal personaggio rissoso che prova a difendere i propri diritti scornandosi ma anche irridendo i potenti, quindi con l’unica arma in possesso dei poveri cristi, assieme alla satira. Il nome proviene anche dal titolo di uno dei libri più deliranti e meglio rappresentativi di Céline, ossia Guignol’s band.
Parliamo del meraviglioso inedito Farfalla presente nel nuovo Ep in free download che anticipa il vostro prossimo album…
Volentieri, grazie per l’aggettivo! Farfalla parla del conflitto in corso in un uomo non più giovanissimo ma ancora capace di appassionarsi alla vita e sorprendersi alla vista di una figura femminile (metaforicamente rappresentata), opposta per natura, ossia più semplice e intatta, in armonia con le cose… e non consumata e un po’ viziosa come invece teme di essere lui. Da lì il timore di far del male, di essere inadeguati. E’ un pezzo piuttosto “black” musicalmente parlando, ci siamo inconsapevolmente trovati a suonarlo in maniera tra il psichedelico e il “soul”, non sappiamo bene per quale ragione dato che non abbiamo precedenti simili.
Tiriamo le somme dopo dieci anni di carriera di blues e folk cantato in lingua italiana?
Dieci anni di carriera sono difficili da sintetizzare. Parlando di blues e folk potremmo essere tranquillamente definiti degli impostori, dato che da sempre è molto ibrido e contaminato di sporcizie, punkettudini e rumorismi il nostro approccio alla musica! L’italiano è la lingua con cui parliamo e quindi per incisività e immediatezza è per me naturale oltre che piacevole da usare. Il bilancio è positivo e gratificante perchè abbiamo portato avanti il nostro discorso senza mai farci condizionare, fregandocene di mode o altro, pagando quindi anche il prezzo di questa scelta, ma tenendo sempre ben presente il nostro desiderio di sintetizzare i contenuti, i testi con un rock fisico, diretto o più morbido o sperimentale, assecondando solo il nostro umore e la spontanea alchimia che è tuttora, e più che mai, viva e fresca all’interno del gruppo.
Il vostro rapporto con la psichedelia considerando la cover di Vegetable man di Syd Barret?
Il nostro rapporto con la psichedelia è dato dai nostri ascolti, che non sono così marcatamente psichedelici, cioè non sempre, ma che comunque ci sono. Il pezzo di Barret ci è stato chiesto per una compilation e si prestava molto bene a farne una versione divertente e divertita e così non ci abbiamo pensato due volte a cimentarci… in modo un po’ cazzone e irriverente, a Barret pensavamo sarebbe piaciuto!
Alcune delle vostre liriche sono molto spesso incentrate sulla poetica dei “vinti”, delle figure che vivono ai margini della società… e sembrano voler creare un sottile filo di continuità con il cantautorato italiano della tradizione di De Andrè…
Tutto ciò è impegnativo, se pensiamo alla tradizione e alla storia della canzone d’autore italiana, ma inevitabilmente questo è un retaggio che ci portiamo dietro e dentro ed è importante avere cognizione della propria storia e cultura di appartenenza. Personalmente sono cresciuto con De Andrè, Conte, Dalla, Gaetano, il blues e il punk anni ‘70/’80 e altro ancora, ma quella che tu chiami continuità forse sta semplicemente nello sguardo rivolto alle cose: ognuno a proprio modo trova un modo per rifletterle e rappresentarle, l’attenzione verso le figure di vinti e reietti è forse comune a quella di altri autori, forse no, ma alla fine, le cose buone o orrende del mondo restano sostanzialmente le stesse… con lo stesso fardello di domande a sollevare dubbi più che mai irrisolti.
Il colore e l’importanza dell’organo nella vostra musica?
E’ uno strumento come un altro ma dà spinta e colore, dilata e inacidisce il suono… è un ottimo commento a molti passaggi armonici.
Cosa pensate della scena musicale indipendente della Milano dell’ultimo decennio?
Non ci è mai interessato molto, tanto meno quando abbiamo appreso che non c’era alcuna scena ma solo piccole cerchie autoreferenziali. Gli Afterhours hanno fatto tanto a Milano e per Milano con la musica, di sicuro anche altri, chi più e chi meno. In generale si fa una fatica enorme anche solo a trovare spazio per suonare con proposte valide che pure non mancano. La musica “indipendente”, per conto mio, dipende da troppe cose, cose pratiche, di sostanza, ed è troppo poco considerata, così come in generale la cultura, giovanile o meno. Forse sarebbe bello ci fosse una vera scena: sostanzialmente a Milano ognuno fa per sè, è un po’ lo spirito di questi anni, vuoi perché troppo dura e difficile vivere di musica, vuoi perché troppo miopi e individualisti. Nel nostro piccolo è già molto positivo trovare collaborazioni, amicizie e desiderio di confrontarsi… ci capita, e se capita vuole dire che le cose possono migliorare anche in senso più ampio.
Quali sono gli ultimi cinque dischi che avete trovato interessanti?
L’ultimo di PJ Harvey, Bob Log, Caparezza, Sonic Youth, Bachi da Pietra.