Dalle terre selvagge dell’Alaska di Into the wild a Seattle. Così Eddie Vedder, dopo un’acustica vacanza solista, riabbraccia i Pearl Jam e in una ripresa coscienza elettrica rinfila il jack in una Marshall. Il rapporto è non protetto, la gravidanza inevitabile. Fiocco rosa alla mano e whisky nell’altra, in una qualche sala parto di registrazione tra Atlanta e Los Angeles, il 18 Settembre Backspacer a testa in giù piange le sue prime note. Ora in casa Pearl Jam i fratellini sono nove, e il primo è ormai maggiorenne; ne è passato di tempo da quel ’91. Un certo Ten, mai sentito nominare? Se ne ricorda, eccome, Brendan O’Brien (produttore dei loro primi album), che per l’ultimo arrivato riveste i panni dell’ostetrica di studio, e il suo zampino si vede, si sente.
La cricca di Seattle torna a suonare, e la prima cosa che salta all’orecchio è la mancanza di quella loro inconfondibile aria arrabbiata. Dopo anni di denuncia gridata con le chitarre a quel sistema americano che proprio non gli andava giù, Eddie Vedder e compagnia suonante sembrano avere voglia di leggerezza. Questo trasuda Backspacer sin dalla prima orecchiabile schitarrata di Gonna see my friend, che apre l’album e mette sul tavolo le carte a scapito di malintesi. Il nostalgico sapore in salsa “old style” di Get some svanisce immediatamente in quel yeah, yeah, yeah di The fixer: irrimediabile apertura pop se ti chiami Pearl Jam. Rimasugli da ballata dell’atmosfera Sean Penn inciampano qua e là nel disco: chiedere di Just breathe e di The end, che chiude un disco asciutto che nei suoi 37 minuti autoprodotti vuole andare dritto al sodo (qualunque sia). Sono, forse, l’autoproduzione (dopo il divorzio dalla major Sony, in America la band ha deciso di distribuire appoggiandosi a diversi partner, tra i quali spicca Target, la quinta catena di grandi magazzini U.S.A.) e la possibilità di scaricare due live a scelta della band una volta acquistato il cd la cosa più new wave di questo Backspacer. E un po’ il pensiero corre, per fare il pari, a quell’ancora giovane Rearviewmirror . Quello che resta come garanzia “Eddie Vedder” sono le splendide camicie di flanella e quelle sue improbabili magliette di gruppi punk sconosciuti ai più.
Credits
Label: Distribuzione indipendente (U.S.A.), Universal (Europa) – 2009
Line-up: Eddie Vedder (voce principale, chitarra) – Jeff Ament (basso) – Stone Gossard (chitarra) – Matt Cameron (batteria) – Mike McCready (chitarra)
Tracklist:
- Gonna see my friend
- Got some
- The fixer
- Johnny Guitar
- Just Breathe
- Amongst The Waves
- Unthought Known
- Supersonic
- Speed Of Sound
- Force Of Nature
- The End
Links:Sito Ufficiale,MySpace
Bella recensione in cui si denota un filo di delusione per una grinta ormai persa dalla band, almeno nella dimensione “studio”.
I toni ed i temi più leggeri, a parola di Vedder, sono dovuti ad un innato ottimismo che la band e la maggioranza americana ha vissuto nel periodo in cui è stato scritto l’album. Lo stesso cantante ha dichiarato che l’elezione di Obama ha portato in loro (e nella società) una energia nuova grazie alla quale, per la prima volta, hanno sentito il dovere e avuto l’occasione di “guardare il bicchiere mezzo pieno”.
Per quanto musicalmente dispiace anche a me non poter ascoltare nuovi brani “tirati”, adoro farmi cullare dall’emozionante Just Breathe.
Ma nessuno deve temere: la rabbia non tarderà… il mondo offre così tante occasioni per incazzarsi!