E’ un piacere ritrovarsi puntualmente a parlare con Gianluca Maria Sorace in occasione dell’uscita del nuovo album degli Hollowblue, Wild nights, quit dreams. E’ un piacere sentire perole gentili ed ispirate. E’ un piacere approfondire l’evoluzione di una band e la genesi di un disco emozionante.
A nome di tutta la band il musicista toscano ci svela dettagli e chiavi di lettura di un intera filosofia artistica che gli Hollowblue dal 2003 esprimono con la propria musica, accompagnandoci nella presentazione dei nuovi componenti della band che si affiancano ora ai membri storici Marco Calderisi alle chitarre elettriche, Giancarlo Russo al basso, Federico Moi alla batteria. (You cannot stop, Forgot to say I still love you, Honeymoon, Shout sono in streaming esclusivo)
Ci siamo incontrati già altre volte su queste pagine, ma la presentazione di un album è sempre un’emozione tutta particolare. Come state vivendo questo momento?
Devo dire che rispetto al passato c’è una certa apprensione dovuta al fatto che questo lavoro è stato voluto e sentito da tutti con grande entusiasmo e per questo si sono venute a creare anche maggiori aspettative. Cerchiamo di tenere a bada le ansie ma è innegabile che in questo album crediamo e speriamo molto. Diciamo che siamo in una fase in cui alterniamo l’eccitazione alla preoccupazione e non vediamo l’ora di celebrare tanto lavoro suonando queste nuove canzoni davanti al pubblico.
Wild nights, quiet dreams è un disco completo come mai gli Hollowblue sono riusciti a fare. Quest’ultimo album cosa ha in più dei precedenti Stars are crashing in my backyard e l’ep What you left behind?
Sicuramente è un lavoro corale. Lo erano anche gli altri album ma non fino a questo punto. Non solo nella composizione, ma negli arrangiamenti. In tutti gli aspetti della produzione c’è la partecipazione completa di tutti i musicisti. Inoltre diverse canzoni sono nate da improvvisazioni in sala prove e questo processo creativo iniziale, al quale siamo molto affezionati, ci sembra abbia portato ad un risultato che noi percepiamo come più diretto e rappresentativo di quello che siamo.
Cura per gli arrangiamenti, sfumature, effetti sonori: nulla è dato al caso, tutto si incastra, si fonde, e fluisce con passione. C’è qualche fattore in particolare che vi ha permesso una così ampia espressività musicale?
Benchè non sia facile giudicare il proprio lavoro, la cura per un certo tipo di arrangiamenti mi sembra stia diventando nel tempo una specie di marchio di fabbrica. Essi consistono spesso nella combinazione di parti talvolta anche semplici, ma che hanno la peculiarità di essere combinate tra loro con equilibrio. Il disco è stato registrato in un paio di settimane. Poco tempo rispetto a quello impiegato per gli altri lavori. Questo ha fatto si che non si disperdessero le energie e le idee, che si andasse subito al cuore delle composizioni. In questo ha avuto un ruolo importante Ivan Rossi (Bachi da pietra, Ronin, Virginiana Miller) che è stato dietro la consolle e ci ha dato una carica di fiducia, energia e anche tranquillità data dalla sua grande professionalità. Sempre Ivan ha mixato il disco. Siamo stati con lui gli ultimi giorni del mixaggio negli studi personali dei Pooh… ma questa cosa meriterebbe un articolo a parte!
Il nuovo album porta con sé l’apporto di più persone che vanno a formare il progetto Hollowblue: lascio a te la presentazione dei nuovi compagni di viaggio…
Come nei lavori precedenti abbiamo avuto ospiti e musicisti che non fanno parte del progetto a tempo pieno ma che hanno registrato e donato un contributo molto significativo come Andrea Cattani alla viola e Filippo Ceccherini alla tromba. Ellie Young (al violoncello) per un paio di anni è stata un membro importante per il suono del gruppo e poi, per vari motivi, ha registrato le proprie parti nell’album già sapendo che non avrebbe continuato il percorso intrapreso con noi. Menzione speciale per Sukie Smith aka Madam con la quale duetto nel brano Wild dogs run del quale lei ha scritto il testo. Una musicista inglese di grande talento e cuore.
Più recente e successivo alla registrazione dell’album è invece l’allargamento della formazione: sono entrati nel gruppo Enrico Filippi al piano e synth e Sarah Mayer al violino e voce. Entrambi sono due musicisti con i quali ci troviamo particolarmente bene sia musicalmente che umanamente. Questo farà sì che dal vivo il suono sia ancora più corposo e ricco che in passato.
Tutto l’album è legato da una poetica decadente e romantica. La leggerezza sembra non trovare spazio, solo le emozioni più devastanti sono degne di essere narrate e tramutate in musica. Amore e morte danzano abbracciati in questo Wild nights, quit dreams. Cosa significa questo connubio?
Sì, molte delle canzoni affrontano questi temi. L’amore è una forza enorme che muove le persone e mi interessava raccontare alcune storie che, alimentate dall’amore, portassero alla morte. Ma anche storie opposte, che pur partendo da presupposti in cui predomina l’immobilità e la sofferenza emotiva e fisica lascino poi intravedere spiragli di speranza e fossero quindi una esortazione alla vita.
Però ci tengo a precisare che non per questo penso non valga la pena parlare della vita quotidiana o di cose considerate più leggere. Non ci sono temi alti e temi bassi. E’ importante il modo in cui li si narra.
I testi dei brani sono quindi fondamentali, posti sullo stesso piano delle note: ogni parola è calibrata e scelta per le sue peculiarità evocative, significative e musicali. Come autore di tutti i testi (eccetto Wild dogs run) puoi dirci quali sono le tue ispirazioni?
Le mie ispirazioni attingono al cinema, alla letteratura, ai sogni ed alla musica di altri musicisti non necessariamente vicini a quanto poi facciamo. I testi sono spesso dei flussi di coscienza che hanno in sè più significati e che ultimamente, in un modo abbastanza libero da strutture narrative, azzardano a raccontare anche delle storie. Voglio che siano evocativi, non necessariamente lineari ed è vero che ogni parola è scelta per il significato ma anche per le sue caratteristiche musicali. Probabilmente ciò che incide maggiormente nelle mie scelte di stile è probabilmente il cinema. In ordine sparso citerei tra le molte influenze Lynch, Bergman, Dick, McEwan, Cave, Gallo e molta fantascienza inglese degli anni ’70.
Mi è stato fatto notare che nelle mie canzoni ci sono alcune immagini ricorrenti: le stelle e il cielo. Questi elementi sono la chiave di molto di quello che scrivo e sono legate in modo stretto col significato che do alla parola Hollowblue. Ecco, forse è il cielo ad essere la mia maggiore ispirazione.
Le tue personali capacità espressive trovano spazio anche nelle arti figurative. L’intero booklet è stato realizzato da te in prima persona. Parole, musica ed immagini sono componenti che non possono mai scindersi per gli Hollowblue?
Nella vita “reale” sono un grafico, secoli fa sono stato persino un aspirante pittore. Produrre grafica è una attività costante nelle mie giornate da quindici anni. Mi viene naturale quindi pensare in termini di progetto grafico, qualsiasi cosa faccia. Dentro di me in effetti non riesco a scindere le cose ma è molto bello quando trovi delle persone che interpretano visivamente quello che fai realizzando un altro punto di vista del tuo stesso lavoro. Pur essendo molto attaccato alla mia personale visione dei progetti in cui sono coinvolto, quando la collaborazione funziona il risultato è normalmente superiore perchè ha in sè degli aspetti più sorprendenti. Le collaborazioni sono aria ed energia.
Nell’ultima chiacchierata (datata 15 Febbraio) sulle pagine di Losthighways, tu e Marco Calderisi annunciavate due progetti in lavorazione: un album di sole canzoni, ma anche un’opera di reading e sonorizzazione. Quest’ultima idea è ancora in cantiere?
Il progetto del quale parlavamo è l’album di poesia e musica che abbiamo in cantiere con lo scrittore americano Dan Fante con cui, come sai, abbiamo lavorato tanto e con soddisfazione. Abbiamo già molto materiale che andrà un po’ affinato ma che è praticamente lì, pronto per essere registrato e pubblicato. L’idea iniziale era quella di fare uscire questo materiale prima di Wild nights, quiet dreams, poi le canzoni nuove sulle quali stavamo lavorando hanno preso il sopravvento sulle nostre decisioni e ci siamo ritrovati con l’urgenza di pubblicarle prima di qualsiasi altra cosa. Teniamo veramente molto al disco con Dan e speriamo di poterlo fare uscire nel 2010.
I brani Shout! e I’ve go the key to change the world contengono scalate di parole, frasi, urlate e recitate, strazianti e taglienti. Sbaglio o già qui si sente maggiormente, rispetto ai precedenti dischi, la vostra passione per i reading ed un certo tipo di performance che non è solo canzone?
In effetti quelle canzoni potrebbero farlo pensare perchè sono una valanga di parole in pochi minuti e poca melodia. Non avevo quello in mente però quando ne ho scritto i testi. Più semplicemente ho cominciato a sentirmi più libero nell’usare la lingua inglese, che per quanto sia la mia scelta, resta comunque una lingua straniera. La musica necessitava inoltre di un cantato/urlato che fosse un po’ allucinato ed aggressivo che, a supporto del significato dei testi, mostrasse una natura non proprio equilibrata.
Tra tutti i brani ti chiedo in particolare di parlare di uno, quello che più mi ha colpito: Honeymoon. La musica, inizialmente latina e desertica, ricca di tensione e teatralità, si trasforma in una melodia dolcissima nella quale la tua voce diventa incredibilmente morbida. Piano e tromba riempiono l’aria rovente, accompagnando basso e percussioni. Tu invece puoi raccontarci la storia che si cela tra le note? Dove nasce l’ispirazione e qual è, se puoi dircelo e se c’è, il significato?
Il testo di Honeymoon, così come in I’ve got the key to change the world, è incentrato sulla vicenda di una persona che ne uccide un’altra. In questo caso la moglie appena sposata. E’ veramente impressionante vedere quante storie d’amore non solo non durino ma sfocino in pura tragedia. Di solito è il maschio che la attua. Colpisce vedere come dall’amore possa nascere qualcosa di totalmente opposto. Una follia che a volte sospetto possa esser sopita in ciascuno e che fortunatamente la maggior parte delle persone è capace di dominare.
Musicalmente, in questo brano, si percepisce chiaramente la nostra passione per gli Stati Uniti di frontiera. Già ne avevamo dato una interpretazione con Stars are crashing in Mexico nel nostro precedente disco. Che poi sia una ambientazione totalmente immaginaria e/o idealizzata credo che poco importi.
Le vostre canzoni sono vere e proprie storie narrate che mi riportano alla mente un maestro come De Andrè, come anche un grande artista quale Nick Cave. Selvaggio è la parola chiave dell’intero album. Perchè, ciclicamente, l’uomo ha la necessità di guardarsi allo specchio e vedere l’animale? La musica, invece, come può essere selvaggia?
Credo che siamo molto più animali di quanto non si voglia ammettere. Credo anche che dovremmo trarre vantaggio dall’esserlo e cercare di non sopprimere l’istinto. La parola selvaggio nel disco ha dei connotati spesso negativi, ma non solo. In Wild & scary, ad esempio, il protagonista si sveglia una mattina e scopre di avere una luce diversa nello sguardo: una luce estranea che spaventa chi ha intorno. E’ il puro istinto che emerge, e la voglia di libertà. La trasformazione e il cambiamento dovrebbero essere visti come parte della vita e non come un pericolo in agguato. In fondo non esiste l’immobilità e ogni attimo che passa ha in sè il seme del cambiamento.
Musicalmente prevale in noi l’istinto. Il calcolo arriva dopo ed è giusto che ci sia, che si faccia un lavoro sugli arrangiamenti, di scelta degli strumenti, delle strutture… ma tutto ha comunque alla base l’istinto. Quando sei persone in una stanza lo condividono e vanno nella stessa direzione… insomma, questo è il motivo per cui sono particolarmente fiero degli Hollowblue. La musica selvaggia è un atto d’amore.