Armstrong è uno di quei nomi che attirano subito l’attenzione. Sarà per il suono particolare, sarà per gli straordinari personaggi che richiama inevitabilmente alla mente, fatto sta che è un nome inconstestabilmente presente nell’immaginario di tutti. Poi c’è quel punto interrogativo a lasciare tutto in sospeso, aperto, un piccolo segno per poter e voler mettere tutto in discussione. Gli Armstrong? arrivano dalla provincia torinese, da quella stessa Rivoli patria dei Perturbazione, e dopo le impressioni positive suscitate con l’ep Your and Our Mutual Alibi, si confermano e ci stupiscono col loro primo album Collateral, sulla piccola etichetta 70Horse Records, fondata da loro stessi. L’approccio alla materia sonora decide di prendere le mosse dal rock per poi alludere anche a certe atmosfere post rock che vogliono spingersi fin quasi alla leggerezza spensierata più tipica del pop da sogno per non dimenticare mai nemmeno le peculiarità di un sound tipicamente italico, che tende a dilatarsi in un’aurea di malinconia, vero elemento dominante. LostHighways vuole approfondire questo interessantissimo e promettente progetto parlandone insieme ai diretti interessati. (Winning You e A Hope sono in streaming autorizzato)
Collateral è il vostro primo album, ma gli Armstrong? esistono oramai da qualche anno. Andiamo con ordine. Quando e perchè nascono gli Armstrong?
C’è da dire innanzitutto che tra i componenti della band c’è un’amicizia consolidata e forse una storia anche bizzarra. Abbiamo condiviso le scuole medie e trascorso una parte della tarda adolescenza a veder maturare i nostri ascolti e gusti musicali. Ci siamo poi persi di vista per anni, ma ognuno, in qualche modo, portava avanti la passione per musica e cinema. Nel 2005 poi ci siamo rincontrati ad un concerto dei Jaga Jazzist e quella sera è riemersa la voglia di riprovare a mettersi in gioco in un progetto comune. C’è voluto un po’ di tempo per capire dove le nostre tre teste ci avrebbero portato a livello di suoni e influenze, ma dopo un po’ tutto è venuto in modo piuttosto naturale e istintivo.
Se Collateral non è propriamente la vostra prima release, sicuramente è il primo disco realizzato per essere un vero e proprio album. Cosa è cambiato nel vostro modo di fare musica rispetto all’ep Your and Our Mutual Alibi?
Non molto a dire il vero, il nostro modo di comporre è rimasto invariato. Tuttavia, laddove il precedente Ep affrontava certe dinamiche del quotidiano con malinconica leggerezza, Collateral risulta avere un mood più omogeneo sicuramente, una sorta di flusso unico dove ci si può lasciar trasportare. Le trame sono più intricate e, secondo me, il disco ha al suo interno la dolcezza e la minaccia degli oceani. E questo lo rende molto cinematografico e con un elemento che torna spesso nel suo svolgersi: l’acqua.
Ho letto che la gestazione del disco è stata molto lunga. Credete che possa aver costituito un vantaggio o uno svantaggio?
Onestamente avremmo preferito una buona via di mezzo, il giusto compromesso. E invece la gestazione, complice varie problematiche personali della band e dello staff di studio, è andata molto per le lunghe. Cosa che ad un certo punto è risultata assai dannosa per il nostro stato pisco-fisico. Nel bel mezzo delle sessions avevamo perso quella lucidità necessaria per affrontare serenamente il processo di Collateral. Fortuna vuole sia stata sufficiente una breve pausa forzata per riacquisire il giusto equilibrio che ci ha poi permesso di portare a termine il disco.
Ascoltando questo nuovo lavoro, l’improvvisazione sembra avere un ruolo piuttosto importante come principio da cui scaturisce tutto. E’ vero? Come nascono i vostri brani?
Seppur a livello di approccio vi siano dovute differenze tra le nostre prime incisioni e il nuovo disco, tutte le nostre canzoni sono sempre nate da improvvisazioni. Col tempo abbiamo capito che è il modo migliore per fare fluire al meglio le nostre idee. Il nostro modus operandi prevede poi un secondo stadio appena più razionale ma decisamente più arbitrario che riguarda gli arrangiamenti. E per finire, i testi, che sono una cosa un po’ a sé, molto delicata e che spettano soltanto a uno di noi.
A cosa o a chi si ispira la vostra musica?
Se parliamo di ideali, le nostre canzoni si ispirano sopra ogni cosa alla poetica del quotidiano e degli effetti che le relazioni, di qualsiasi natura esse siano, possono scatenare nell’essere umano. In termini più pratici, non neghiamo tuttavia di essere molto affascinati dal cinema, specie quando si tratta di certe pellicole d’autore o commedie dal retrogusto un po’ amaro.
Interessante notare una particolare cura per il sound nei vostri brani. Un’attenzione nel convogliare tutti gli strumenti verso la creazione di un flusso sonoro che possa veicolare sensazioni. E la malinconia sembra davvero il mood dominante, suggerita dalla melodia che rimane sempre elemento portante delle vostre composizioni…
Sì, direi che hai colto nel segno. Tutti noi della band siamo dei veri fan della malinconia, non c’è dubbio. E se questa caratteristica ci apparteneva fin dalle primissime cose, è pur vero che su Collateral questa sensazione di flusso emozionale è assai più profonda e sofisticata. Immagino questo disco come qualcosa in grado allo stesso modo di cullarti dolcemente o di ingoiarti in un solo boccone. Insomma, un altro motivo per ribadire la metafora degli oceani di cui accennavo prima.
Personalmente, penso ci sia pochissimo spazio oggi in Italia per questo particolare genere di musica, tanto che spesso, paradossalmente, si creano dei circuiti “underground” ancora più ristretti di quelli indipendenti. Cosa vuol dire per voi fare questo genere di musica in Italia oggi?
Effettivamente la possibilità che Collateral possa restare in ombra per il resto dei nostri giorni è un rischio reale, ma in fondo non diamo tanta importanza a questo. Potrebbe sembrarti un atto gratuito di masochismo, ma qui nessuno di noi è così ingenuo da credere di potersi svincolare da un lavoro “vero”. E anche se sarebbe bello farne una professione, i nostri non sono più tempi per pensare di poter vivere di musica, e anzi in periodi come questi il solo pensiero equivale addirittura ad un suicidio spontaneo. Ma, credimi, quando non muori nonostante tutto, è una gran soddisfazione.
La scelta di creare la vostra etichetta è o può essere in un certo qual senso legata a questa sorta di “rifiuto”o di poca attenzione che c’è nel panorama musicale del nostro Paese?
Non neghiamo certo di essere parecchio contrariati di fronte a certe situazioni della musica indipendente in Italia. Ci troviamo sicuramente nel mezzo di un difetto culturale non c’è dubbio, e alle soglie del 2010 c’è ancora molta paura nell’investire su prodotti come il nostro. Sono ancora considerati di difficile fruizione o eccessivamente settoriali. Ovviamente non condividiamo, e ci pare anzi una tendenza che ancora volta rende il nostro paese retrogrado. La realtà ha fatto sì che, nel momento in cui ci siamo accorti che il mondo indie non aveva un posto per Collateral, abbiamo deciso di creare una nostra piccola label, la 70 Horses Records.
Trovo che la realtà musicale di Torino e provincia sia davvero ricchissima di qualità. Qual è il vostro punto di vista? Percepite un certo fermento, una coesione tra le varie band e le varie organizzazioni presenti sul territorio o pensate ci sia bisogno di lavorarci su questo?
Amiamo Torino, è una città piena di fascino e arte. Nel sottobosco indipendente vi sono sicuramente delle proposte interessanti con cui condividiamo uno stesso spirito musicale; purtroppo credo che l’immaginario ancorato al capoluogo piemontese sia ancora per buona parte congelato ad un amarcord degli anni ’90 e tutto questo è ovviamente limitante per le giovani leve.
E cosa mi dite riguardo la dimensione live? Riuscite a portare in giro il disco o è piuttosto difficile anche quello? Qual è l’atteggiamento del pubblico nei vostri confronti?
Diciamolo, organizzare un tour con i locali non è proprio un gioco da ragazzi e se non hai un’agenzia che ti supporta, l’idea di una promozione rischia di essere davvero frustrante. In tempi come questi spesso il crearsi delle buone possibilità scaturiscono dal passaparola. E quando questo avviene come già più volte ci è capitato, ne siamo ben contenti poiché vuol dire che un minimo di pubblico lo stai conquistando con il solo potere della musica. E’ il caso di curiosi o appassionati che poi viene ai concerti, e magari a fine concerto viene a complimentarsi o ti compra il disco.
Un’ ultima curiosità, scommetto ve l’avranno chiesto in molti. Quel punto interrogativo nel vostro nome?
Il nome della band fu annotato molti anni fa dal sottoscritto su un post-it, il giorno in cui Lance Armstrong vinse uno dei suoi Tour de France. Inoltre, questa sigla richiamava alla mente varie figure illustri molto care e quotate nell’immaginario collettivo. Personaggi come appunto Neil, Louis e Lance. Il punto interrogativo ho pensato fosse il giusto compromesso per avere un finale aperto, come per mettere tutto in discussione. Una chiave di lettura più ampia.