Scivola dal cielo la prima danza sulle punte di un inverno già stanco. Stanco di arrivare. Stanco di sostare. Passi lenti. Parole sussurrate. Luci fioche che guidano all’ingresso di una struttura dedicata alla musica. Una struttura che potrebbe premiare la carriera decennale di chi ha limato le zanne rock, facendone rami vivi di una quercia folk d’intime prospettive e armoniche curve. Moltheni arriva a Napoli con tutta la sua band, e porta un vento di boschi elettrici, per ricordare rileggendo ciò che è stato, per salutare… per adesso, o forse no. Napoli avrebbe potuto dare un segnale diverso, avrebbe potuto respirare il peso leggero di certa poesia che sa graffiare e annegare negli occhi invocanti un’ispirazione primordiale. Napoli avrebbe potuto scegliere diversamente e riempire (di più) il ventre rosso della Casa della Musica. Invece i numeri non sono altissimi, e i pensieri allora scelgono i punti interrogativi. Sempre gli stessi, quelli destinati a non avere risposte o a sfociare nelle amare constatazioni che abbassano le mani.
Potrebbe non importare, potrebbe prevalere la sensazione umida di quella clessidra che Moltheni capovolge all’improvviso, domando il tempo di un’esibizione impeccabile e così tirata da strappargli la voce dalla gola. Quella voce che cerca sputando fuori la forza e la professionalità. Quella forza arrabbiata che Per carità di stato pretende, fino a tirare via una corda da quella chitarra invasata dal sacro istinto dello sdegno. Moltheni vince una città a volte banale, a volte sorda, a volte ingenua, a volte disinteressata. Moltheni prega una ad una le sue canzoni, e osserva il suo pubblico. Quello che c’è è desideroso, ansioso, caparbio. Forse lui lo sente. E quelle dita incantano, inventano ad ogni passaggio voli di farfalle. Può l’intensità arrivare al senso estremo della leggerezza? Sì.
Il circuito affascinante, In centro all’orgoglio, Petalo, L’età migliore, Il bowling o il sesso?, Corallo, Gli anni del malto, Un desiderio innocuo, Fiori di carne, Nella mia bocca, Nutriente… La forma cambiata da quell’Ingrediente Novus alchemico, uscito il 27 novembre per La Tempesta. Non una raccolta sterile, ma una rilettura nel ventre oscuro di una natura silenziosa ma sonante. E se Suprema dimostra che il Bello sa inventarsi nuovi colori conservando intatto il dono dell’eccezione, Vita rubina (esclusa dalla raccolta) cresce piano, cucendo una dietro l’altra le immagini sfocate degli errori, dei bisogni, delle malinconie.
Dieci anni. Dischi intensi e rari, di una consistenza che sa farsi anche cristallo, per trasparenza e riflesso.
E le domande. Le domande contro la pigrizia di un’Italia addormentata, assuefatta. Le domande contro chi usa la penna della critica per raccontare la presunta sostanza cantautorale di prodotti costruiti con lo stesso principio dell’effetto domino. Certe considerazioni vendute hanno stancato. Il rumore egoistico della presunta musica ha stancato. Invece c’è sete d’altro. E Moltheni è altro. (Si ringraziano Nicolò Zaganelli – ArteVOX e Katia Giampaolo – Estragon; foto di Federica Di Lorenzo)