Unite il primordiale elemento ctonio del Verme con i futuri dominatori Robots. Da questa fusione fuoriesce un sound denso e corposo di spasmi crossover con impeti post-core. La band salernitana dei Verme Robots ha convinto critica e pubblico con il debut-album Crawling in the rush hour. I testi in inglese sono strappi d’anima difficile da far passare innoservati.
L’etichetta campana Imakerecords firma questo strabiliante disco accendendo i riflettori su una possibile nuova scena rock nascente nel Meridione. I Verme Robots hanno attirato l’attenzione di LostHighways ed è nata questa chiacchierata per scoprire meglio le carte di questa giovane band.
Partiamo dal nome del vostro progetto, perché Verme Robots?
In primis perchè volevamo un legame col vecchio nome della band (Crawler – qualcosa che striscia) e poi perchè, date le circostanze, il progetto si era ridotto alla presenza e alla volontà di due persone sole. Il verme lascia la continuità col passato e il robots rappresenta il futuro o meglio il progresso… attitudine, mai come adesso, sempre più presente nella stesura dei brani. E poi Verme Robots suona figo, no?
Il sound che proponete è molto originale nella sua commistione di influenze e derivazioni, forse principalmente tra il mondo crossover e quello post-core. A quali band di questi due filoni vi sentite più legati?
Non saprei dire. Abbiamo sempre ascoltato quello che ci piace. In verità ho anche difficoltà a stabilire un confine tra le due tendenze. Possiamo dire che ci piace mischiare vari stili ai nostri ascolti più radicati. E’ sufficiente che tutto rientri grosso modo nella forma canzone e che ci sia melodia, nonostante la nostra abitudine a prenderci gioco del tempo e a destrutturare. Hardcore progressivo può essere una definizione tecnicamente simpatica per descrivere il suono dei Verme Robots.
Le liriche sono flussi di coscienza, sono grida interiori… sembrano un dialogo costante con i vari lati di una personalità in conflitto tra vecchie paure e vecchie bugie. Possiamo approfondire il fulcro tematico del disco?
Può andare anche bene la tua definizione. Portiamo fuori le impressioni, belle o brutte che siano. Non interessa cosa la gente pensi, né l’eventuale suo bisogno di seguire un tema comprensibile e prestabilito. La vita di ognuno di noi è troppo difficile e complessa da risolvere e capire. Non puoi evitare di scrivere ciò che ti succede nel corso degli anni. Questo disco va visto nell’ottica del concept. C’è un filo conduttore che lega ogni brano.
Le ritmiche spezzate, i sobbalzi melodici, le virate ai limiti del growl sono tutte caratteristiche peculiari del vostro rock. Sono queste le uniche cifre stilistiche che seguite e seguirete nel vostro processo creativo? Mi permetto di porvi questa domanda perché nell’ascoltarvi si intuiscono molteplici potenzialità nel vostro progetto che potrebbero condurre a diverse soluzioni sperimentali…
Non è assolutamente certo ciò che faremo in futuro. Non ci interessa minimamente appartenere ad un filone. Suoniamo quello che ci viene. Puoi aspettarti di tutto. Le cose nuove tendono ad essere contaminate dal jazz ed è probabile un aumento della velocità. Rimarremo, con ogni probabilità, nel complesso e affascinante mondo del prog nella sua accezione più ampia.
Il brano Change vede la collaborazione della cantante Teresa Tedesco dei da’namaste, altro progetto campano molto interessante. Ci potete parlare di questa collaborazione?
La storia è sufficientemente ingarbugliata. Abbiamo chiamato Teresa a partecipare alla parte finale del brano che avevamo lasciato come strumentale. Il suo apporto è stato notevole. Il suo contributo lo ha dato direttamente in studio. Abbiamo fatto tutto in un paio d’ore. Il risultato è stato una vera bomba in relazione al tempo speso. Ha donato ancor più personalità al brano e lo ha condotto tra i confini della “canzone”. Abbiamo pensato a lei perchè ci sembrava la voce giusta e la giusta testa per il genere di cose. Con Teresa c’è un legame che va al di là della mera collaborazione. In verità la batteria dei Verme Robots è voce e chitarra nei da’namaste e la voce e chitarra dei verme è, da poco, basso nei dana. Insomma una cosa non facile da spiegare.
Il booklet è molto particolare ed è in piena sintonia con il concept del disco. Possiamo parlare della sua realizzazione grafica?
Questo è il classico caso in cui più manifestazioni artistiche si incontrano per darne vita ad un’altra, che è più dellla somma delle stesse. In breve, noi cercavamo delle illustrazioni che facessero stare in piedi il progetto dal punto di vista estetico. Abbiamo chiesto a Manuel Lupi, graphic designer, di occuparsi della grafica. Lui ha trovato, in alcune illustrazioni di Andreas Zampella, coerenza con tutto il progetto. Tutte le illustrazioni erano preesistenti ai brani. Ci siamo accorti di un’aderenza incredibile tra le immagini, i testi e la musica. Sembrava che il tutto fosse stato ideato appositamente per confezionare l’album.
Ci saranno vostre date live in giro per l’Italia e all’estero?
Certo che sì. In Italia continuerà il tour per buona parte del 2010. Per l’estero stiamo in stand-by. E’ sicuramente una cosa che faremo in futuro. Ora ci preme portare in giro il lavoro per il nostro paese. Siamo italiani e fortunatamente o malauguratamente è qui che sentiamo più forte l’esigenza di comunicare.
Cosa ne pensate della scena rock campana attuale? Ci sono spazi adeguati nella nostra regione?
Andando in giro per l’Italia ci siamo accorti che da noi ci sono tantissimi posti in cui suonare, con una scena molto interessante, cosa che è risultata meno positiva in altre città italiane e che non ci aspettavamo. Restano comunque problemi relativi all’aspetto organizzativo, promozionale e di interesse verso il fenomeno. Ma la questione è culturale e non interessa solo la Campania.
Cinque canzoni che vi hanno segnato?
Ammetto che non so rispondere con precisione alla domanda, la musica è un emozione che si evolve con i percorsi di vita, tutto quello che ascoltiamo può segnarci in un certo periodo della nostra esistenza. Alcune band importanti sono state quelle appartenenti alla scena di Seattle legata agli anni 90 tra cui Kyuss, Alice in Chains, Soundgarden e poi Pantera, Charlie Parker ed altri (durante gli studi jazz), Snot, Faith no more. Pensandoci vengono in mente troppe band. Ah ,ma tu ci avevi chiesto cinque canzoni?!