Parole dal fondo femmina. Squarci di vissuto come strappi nel velluto. Qualcuno tirato dal vento dell’amore, solo qualcuno. Perché Copenhagen è un altrove, un punto di vista e del sentire, del ricordare. Un non luogo in cui s’annida la parte trasparente dell’umano, riplasmata in forma di canzone, trasfigurata fino alla melodia. Micol Martinez firma un esordio discografico convincente, che mescola l’anima cantautorale al sangue rock e alle sue direzioni varie. Nove brani, illustri ospiti, una produzione artistica firmata da Cesare Basile e Luca Recchia. Dalle virate dolci agli spigoli sperimentali, la Martinez segue una scrittura onesta e sincera, animata da nomi, legami, accaduti. Con lei abbiamo chiacchierato, forse di notte… mentre piovevano fiori. (Donna di fiori è in streaming autorizzato; foto 1-3 di Stefanino Benni , foto 2 di B. Piacentini; si ringrazia Manuela Longhi – Bla Bla Bla)
Copenhagen è un luogo ideale. E presta il titolo al tuo disco d’esordio. Raccontami questa simbolica associazione…
Ho scelto Copenhagen a rappresentanza della scrittura. La città – che io non ho mai visitato – scrivendone diventa reale e visualizzabile. Questo è quello che accade alle canzoni: emozioni, pensieri, palpiti che si traducono in immagini, voci, suoni e melodie. Copenhagen è quindi un luogo-non luogo, il luogo da cui attingo per scrivere. Come spesso racconto in proposito, Copenhagen può essere Berlino o Varsavia, o qualunque altra città. La scelta della capitale danese è legata ad una questione fonetica, al “clima nordico” dell’omonima canzone, ad una questione personale: una persona che in quel momento era in quella città.
Attrice, pittrice, dj… come e quando hai deciso di esprimerti come cantautrice?
Non l’ho mai deciso ma ho sempre saputo che questo è il “mio” canale d’espressione. Scrivo e canto da quando sono ragazzina… ho anche partecipato alla colonna sonora di un film quando avevo solo otto anni. Sono, però, sempre stata troppo timida per espormi. Studiare teatro e recitazione mi ha aiutata: una volta sconfitta la timidezza, mi sono dedicata completamente alla musica.
Cantautrice. Cosa vuol dire per te? Per te che smuovi maree di parole e suoni da “dentro”.
Per me essere cantautori è, come mi è già capitato di dire, essere artigiani della musica.
Non è molto diverso dal fare sculture di sabbia (attività che amo): prima si raccolgono milioni di granelli, le mani si muovono dentro e attraverso la sabbia, costruiscono un’unica grande forma, poi tracciano linee che creano vuoti e parti piene, zone d’ombra e di luce, fino a raffinare e definire i più piccoli particolari. Per me scrivere è una necessità quasi violenta, è salvezza. E’ malattia che ha in sè la cura. E’ esorcizzare paure, è trasformare il malessere in bellezza, è giocare.
L’amore, e non solo. Lo infili in canzoni dal piglio femmina, ferita ma felina…
Fare musica, per il mio vissuto, non è esercizio di stile, ma è totale onestà. E’ essere generosi. La caratteristica della generosità artistica mi è stata insegnata a teatro e la riconosco nel mio lavoro di cantautrice. Non ho voluto scrivere canzoni d’amore. I brani sono nati da un’esigenza forte e personale. Ogni canzone è legata al mio vissuto, che suppongo possa essere simile al vissuto di tanti. Il modo in cui mi approccio all’amore nelle canzoni è lo stesso che nella vita. Siamo autori di una canzone quanto della vita che viviamo. A noi la scelta. Inoltre, in alcune canzoni, l’amore è un pretesto – forse – per comprendere meglio gli esseri umani e le loro relazioni.
Il disco oscilla tra brani più spigolosi e brani più vicini ad una melodia ordinata. Vedo gli opposti in L’ultima notte e Stupore…
Credo questo dipenda dalla generosità di cui parlavo prima. Le due canzoni raccontano situazioni diverse, quindi anche l’approccio stesso alla canzone è differente. Il mio modo di pormi di fronte alla scrittura è intuitivo e immediato, per nulla calcolato. Se pensi ai mille modi in cui può essere data una carezza…
Donna di fiori. Ultimo atto di Copenhagen. Qui ho trovato il senso del disco, io. Perché?
Forse riassume davvero tutte le Micol (temo siamo tantissime) che hanno scritto nel disco. Forse riassume quattro differenti “stati dell’umano”, che tutti, almeno una volta nella vita, hanno vissuto. Da “Donna di Fiori” che porta un ciclamino dentro la sua bocca – a rappresentanza del mentire a se stessi – a “Donna di Quadri” che ha costellazioni sulla propria pelle “ma non sono macchie non sono stelle, sono buchi neri da cui puoi vedere il buio che tengo stretto” – a rappresentare la profondità di quello che ci portiamo addosso.
Invece il brano che tu ritieni essere centrale?
Donna di Fiori. Proprio perché, e hai centrato in pieno, riassume il senso del disco, che non è però l’amore: è l’essere umano, nel suo tentativo di comprendere e gestire le “cose umane”.
In Testamento biologico affronti un tema molto dibattuto, e forse non dovrebbe esserlo…
E’ una questione molto delicata e un dibattito, finalmente, acceso. Dico “finalmente” perché finalmente si può agire e portare le persone a riflettere seriamente su qualcosa a cui nessuno vuole pensare: la morte. I due opposti non sono morte e vita. La morte fa parte della vita ed è giusto rispettarla e trattarla come una parte della vita. La libertà a cui tanto aneliamo deve riconoscersi anche in questo. Rispettare la vita, per me, è lasciarmi andare nel momento in cui la stessa si è “stancata di me”. Lasciarmi andare in “pace”. Ovunque la pace sia, qualunque cosa sia “il dopo”.
Cesare Basile (insieme a Luca Recchia) ha curato la produzione artistica del tuo disco, interpretando in modo magistrale l’essenza delle tue canzoni. Mi racconti le dinamiche di questa collaborazione?
Nella pratica sono arrivata in studio con pezzi scritti chitarra e voce (alcuni già rivisti, per la parte musicale, da me e Cesare insieme, come Testamento biologico e L’ultima notte, che musicalmente è opera di Cesare). Luca ha scritto le linee di basso, Cesare ha lavorato su tutte le chitarre e insieme hanno trovato le soluzioni musicali per rendere al meglio i pezzi. Alessio Russo ha suonato, con l’intervento di Cesare, su tutte le batterie (tranne su Il vino dei ciliegi, per la quale è stato chiamato Fabio Rondinini)
Molti musicisti impreziosiscono Copenhagen, a partire dallo stesso Basile…
Sì. Rodrigo D’Erasmo, Fabio Rondinini, Enrico Gabrielli, Alberto Turra, Roberto dell’Era, Alfredo Aliffi sono stati chiamati a partecipare ad alcuni brani ed a “completare l’opera”. E’ stato un momento splendido. Ognuno di loro ha portato la propria sensibilità e ha contribuito alla costruzione di quei mondi che tanto caratterizzano ogni brano.
Ti sei occupata del progetto grafico insieme a Robert Herzig, autore dei disegni del libretto. Me ne parli?
Ho conosciuto Robert sul set di un video clip dove io ero attrice. Ho amato subito il suo lavoro. Avevo già in mente colori e luci del booklet, tanto quanto l’idea della copertina. Ci siamo trovati e abbiamo lavorato insieme. E’ stato bello vedere tradurre le canzoni in immagini. Robert ha un tratto splendido.
Cos’è un cuore da mercante di parole?
Il riferimento è diretto a chi scrive, siano canzoni o poesie. Vorrei raccontare aneddoti più poetici in proposito ma racconterò semplicemente come è nato il brano.
In realtà è una considerazione su quanto la canzone possa essere ingannevole, soprattutto quando parla d’amore. Banalmente: chi scrive “morirei per te” magari non è in grado nemmeno di provare ad amarti. La canzone d’amore che si ispira ad un ideale porta questo banale “fraintendimento” (se poi si è l’oggetto della canzone stessa, ce ne si accorge meglio). Questo è il concetto per me di “mercante di parole”.
E siccome, oltre ai “mercanti di parole” ci sono anche i “maghi” che ti risolleveranno da ogni fatica, e i “soldati” sempre pronti a difenderti e a salvarti… (quando l’ho scritta pensavo “se sono convinti loro…”) per provocazione io “come te avrò un cuore da mercante di parole”.
Questo è quello che emerge dalla canzone, scritta forse con un po’ di rabbia e legata ad un evento personale chiuso in un periodo ben preciso. La realtà delle cose è che è normale e giusto che questo accada; anche questo fa parte della salvezza che lo scrivere ci dona.