Dopo diversi anni di attività che l’Inghilterra ha tenuto quasi segreta, gli inglesi The Irrepressibles escono allo scoperto e decidono di regalarci il loro disco d’esordio, Mirror Mirror. La loro musica fonde le orchestrazioni della tradizione barocca seicentesca con la pregnanza emozionale delle melodie pop in composizioni incantevoli. Ma la loro è un’arte di cui la musica costituisce soltanto una parte. Una parte di un organismo unitario che splende di vita, che mostra le stravaganze e la profondità dei sentimenti umani.
Fortemente legati al concetto di immagine, hanno realizzato negli anni passati performance particolari, nelle quali tutte le arti divengono parte integrante di un mondo fantastico e visionario. Bellissime le performance al Latitude Festival in cui si sono esibiti al centro di un lago, o al Victoria and Albert Museum in cui hanno ricreato una vera e propria “scatola sonora umana”.
L’anno scorso hanno realizzato la colonna sonora di The Forgotten Circus, film incantevole della regista e coreografa Shelley Love, facendoci già innamorare. Il teatro che diventa vita, sentimento, tramite i costumi, le luci, le scenografie, le immagini, la musica. La perfetta realizzazione di quel legame, di quella sinergia tra le arti che LostHighways insegue da sempre. Così, l’uscita di Mirror Mirror diviene occasione per poter approfondire questo incantevole progetto, pochi giorni prima della sua presentazione ufficiale dal vivo alla Queen Elizabeth Hall di Londra. Jamie McDermott, leader carismatico, ideatore delle immagini e compositore delle musiche, prova a farci entrare nel mondo fantastico degli Irrepressibles, nell’attesa che la forza catalizzatrice delle loro esibizioni possa rapire anche l’Italia. (In This Shirt e My Friend Jo sono in streaming autorizzato; si ringraziano Marco Aimo e Cooperative Music)
Puoi spiegare a tutti i lettori italiani come nasce il progetto The Irrepressibles?
Quando ho avviato al progetto Irrepressibles, nel 2002, volevo trovare degli arrangiamenti usando strumenti che potessero sostenere la profondità emozionale del mio songwriting, la sua intensità emotiva ed estroversa, espressioni innate nella mia personalità. Volevo essere capace di descrivere il suono della landa perduta dove queste emozioni vivono nelle nostre teste e di trasformare queste emozioni in musica, descrivendo ciò che sento durante la mia esperienza di vita. Quello che spesso viene percepito come melodramma nella mia musica è infatti la realtà dei miei drammi di vita, espressi nella iper-realtà della musica. La vita ovviamente può essere drammatica e complessa con molte emozioni impercettibili piene di colori. Ero annoiato dalle semplici canzoni felici, dense di ottimismo, e delle lamentevoli canzoni tristi, per questo ho voluto creare qualcosa di assolutamente reale che potesse vivere nel suo stesso mondo sonoro. Gli Irrepressibles sono una reazione istintiva in diversi modi contro la sterile natura stereotipata di molta musica pop, contro l’uso dell’auto intonatore per creare voci sintetiche e non sincere, ma anche dell’inumano super suono perfetto, dell’aggressività forzata e soprattutto della sua pianificabilità. Tutto sembra muoversi verso questo sound da “musica promozionale”. Io volevo, e continuo a volerlo, fare qualcosa che potesse ritrarre la vera organicità, il dramma e l’intensità della vita. Ecco perchè ho usato questi strumenti nello stesso modo in cui la gente negli anni ’60 usava la chitarra distorta per esprimere una liberazione. Le mie orchestrazioni provano a spiegare questa organicità, questo dramma, questa intensità. Provengono dalle storie e dai sentimenti piuttosto che da influenze o referenze. Io non ho mai studiato musica classica, semplicemente canto agli strumentisti dell’orchestra le parti che creo nella mia mente. Uso gli strumenti per creare un suono per poter vivere nella canzone, le parti musicali vengono tutte dai testi e dal loro sentimento.
Gli Irrepressibles sono attivi da diversi anni, ma Mirror Mirror risulta essere un album d’esordio. Come mai la scelta di uscire con un intero album soltanto oggi, nel 2010?
C’è voluto tempo per convincere l’industria musicale del mio progetto. È un progetto che non si adatta bene al modello imperante nell’industria musicale. Inoltre ho voluto svilupparlo fino ad un punto estremo per comunicare le sue idee con molta forza. Ora ho un team incredibile di persone, per la promozione, la produzione dei live, musicisti e artisti collaboratori che possono aiutarmi a rendere il mio progetto comunicabile.
La tua musica è incredibilmente legata al concetto di “immagine” e aperta verso tutte le altri arti che utilizzano proprio l’immagine come espressione principale: teatro, circo, balletto, danza, cinema. Anche i vostri concerti sono sempre molto particolari. Non sono soltanto dei semplici concerti ma dei veri e propri spettacoli. Da cosa nasce questa esigenza?
Il look e lo stile sono orientati tutti intorno a una sola idea: quella di estendere la musica in un mondo visuale. Ogni elemento del gruppo prende la musica nel propri corpo, così noi tutti possiamo diventare un solo organismo guidato dal sentimento della musica. Lo shock e il distacco depressivo diventano isterici nel caso di My Friend Jo, mentre dominano la catarsi, la solidità e la rottura nel caso di In This Shirt. Ogni componente della band è un elemento del suono che diviene paesaggio, che diviene a sua volta istallazione e oggetto. Lo spettacolo prende una forma complessiva che esprime l’emozione della canzone, la performance dell’orchestra, il set, la luce, tutto come una macchina organica, un corpo, uno stormo di uccelli.
In termini di spettacolo, io credo sia essenziale avere una comunione col pubblico e simultaneamente permettergli di guardare oltre se stessi, nell’intimità, ma anche affascinarli, come un bambino che scopre l’arcobaleno. Io provo a ottenere questo creando installazioni all’interno della performance. I musicisti, il set, le luci, le coreografie e la musica arrivano insieme per diventare qualcosa come una sorta di scatola sonora o una macchina organica che possano esprimere le intenzioni della musica e diventare con essa una nuova forma per dare voce al sentimento. Poi è come pensare “un’architettura” di concetti capaci di estendeere la mia visione iniziale, che il mio team creativo può abbellire trasformandola in linguaggio visivo. La coreografia permette agli artisti di aggiungere i propri sentimenti ed emozioni e di esternarli al pubblico. Intimamente connessi, diventiamo un oggetto per il gioco diretto del pubblico piuttosto che un gioco da osservare solamente. Diventa un’esperienza intima per le singole persone, spero.
Che importanza ha per te e per la tua idea di arte questo tipo di approccio visivo?
Credo che appena metti i piedi su un palcoscenico ci sia un’intensificazione delle sensazioni, un’iper-realtà. Lasciamo ai nostri collaboratori molta libertà. Gli Irrepressibles possono essere espressi in molti modi a livello visivo. Non adorniamo una maschera o un’immagine. Noi siamo quella “maschera”.
Aspiro a comunicare qualcosa di sincero con molti colori e tessiture sia a livello sonoro che visuale. La forma è divisibile, ma tutto si adatta insieme per creare un’unione. Mi propongo di creare un’arte che richiami l’essere bambini in tutti noi, quel senso di immaginazione, libertà, emozione e vulnerabilità che i bambini hanno. Creo con un assoluto senso di libertà a livello emozionale. Spero di poter ispirare quest’apertura nelle altre persone, senza idee forzate o restrittive.
Di solito come nasce la tua musica?
Inizialmente seduto con un registratore suono qualcosa con la mia chitarra o la tastiera e lascio che le parole e la musica fluiscano. In seguito decifro il significato. Ascolto e scrivo le parole. È eccitante come il tuo subconscio possa creare se lo lasci fare! Poi mi riunisco in una stanza con i musicisti dell’orchestra, canto loro le parti, mettendo un motivo musicale dietro l’altro, scolpendo il mondo sonoro. La natura degli strumenti definisce la natura della musica. Poi di solito do ad un brano circa 3 mesi per “fermentare”, guardandolo da differenti prospettive e poi, eventualmente, lo portiamo a termine e mettiamo in scena. Attraverso la performance si modifica grazie alla reazione del pubblico.
Ti senti particolarmente ispirato da qualcosa o qualcuno in ciò che ti circonda?
Tutto, dal suono dei treni metropolitani al suono delle risate e del silenzio, ai movimenti dei corpi delle persone nella vita normale, alll’architettura dei palazzi e ai cambi di luce. Tutto mi influenza e provo a riflettere questo attraverso la mia musica e le immagini.
Puoi provare a farci entrare nel vostro mondo fantastico spiegando la concezione che sta alla base di quello che tu crei?
Parto dal mio subconscio, in un secondo momento lo decifro e orchestro con la stessa velocità e senza intenti particolari, attraverso la catarsi e in una sorta di trance. Tutto ciò poi matura e inizia a definirsi in maniera ulteriore, quindi scolpisco il suo significato a livello musicale. Su questa musica poi lavoro per la parte visuale, visione estetica, idee concettuali e architettoniche, con un team di artisti collaboratori, per poterla spiegare attraverso la fotografia e l’esibizione dal vivo.
So che avete portato uno dei vostri spettacoli al Victoria e Albert Museum a Londra, suonando mentre la gente visitava il museo. Puoi parlarmi di quell’esperienza?
Il The Human Box Show è stato commissionato dal Victoria and Albert Museum. Era la realizzazione di uno spettacolo che avevo in mente da un po’ e loro mi hanno supportato insieme a Melvin Benn del Latitude Festival, dove noi ci siamo esibiti nel bel mezzo di un laghetto. The Human Music Box è stata una reinterpretazione di un’invenzione barocca, sonora ed estetica, portata attraverso il modernismo verso un nuovo mondo di specchi, robotica, pop e luci. Era ovviamente una scatola sonora, una serie di “tableaux vivants” che si muovevano attraverso un display meccanico, una visione sospesa.
Com’è nata l’idea?
L’ho immaginato un giorno, prima dell’evento. Si trattava di creare un “edificio” o un contesto che potesse rappresentare la musica e i musicisti e che si adattasse allo stile e al sentimento della musica e, ovviamente, una scatola sonora umana è una fantasia che si è realizzata. Poi l’ho sviluppato con un team di artisti, tecnici e designer per lo show al Victoria and Albert Museum e ora stiamo pensando di svilupparlo ulteriormente con la speranza di portarlo in tour per il mondo.
Siete stati coinvolti anche nella creazione della colonna sonora per il film di Shelley Love, The Forgotten Circus, nel 2009. Com’è stato provare a dare un suono alle immagini create da altre persone?
È stato splendido. Shelley Love è una regista e una coreografa molto preparata e creativa. Per comporre la musica ho preso i primi due accordi di In This Shirt, un brano che lei voleva per il suo film, e ho creato delle “variazioni sul tema” legate all’azione sullo schermo. Siccome si tratta soltanto dei primi due accordi, quando il brano arriva nella sua interezza c’è un senso di risoluzione e con esso arrivano anche le emozioni più intense sullo schermo. Ho collaborato con William Turner Duffin, un sound designer.
Progetti per il futuro? Vi vedremo in Italia?
Porteremo in giro per il mondo, e ovviamente anche in Italia, Mirror Mirror Spectacle (debutto al Queen Elizabeth Hall a Londra il 14 Febbraio, n.d.r). A questo punto si tratta di trovare promoters e luoghi a livello internazionale che possano supportarci e spingerci a creare certi spettacoli. Abbiamo diversi show in programma e speriamo di poter portare la performance degli Irrepressibles tra l’Europa, l’Asia ed eventualmente l’America e l’Australia entro quest’anno.
Un solo commento
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