Un artista è prima di tutto una persona, un essere umano che cresce e cambia. Il vissuto influenza la composizione artistica e la ricerca personale può condurre attraverso percorsi musicali inaspettati e non previsti. Della vita e della musica, del cambiamento e della curiosità LostHighways discute con Evasio Muraro: una carriera in continuo cambiamento, un disco uscito nel 2009 e uno di prossima pubblicazione, progetti di musica ma anche di vita. Mentre l’artista racconta qualcosa di più a proposito del suo ultimo lavoro, Canzoni per uomini di latta, riascoltiamo Vivo e L’ultimo colore blu, due brani dal suo precedente Passi.
Il tuo percorso artistico negli anni è stato decisamente eclettico, vale la pena presentarlo con cura. Ci racconti la tua evoluzione, dalla musica dei Settore Out all’espressione solista, prima con Passi ed oggi con Canzoni per uomini di latta?
Intanto ti saluto Giulia, e ti ringrazio per l’interesse. Ti devo dire che fin dai tempi di Settore Out, la cosa principale, la più importante, quella che mi ha sempre guidato come una lanterna su una barca in piena notte, è stata la curiosità e quindi, nello stesso tempo, il cercare sempre qualcosa di nuovo che mi potesse vestire bene. Non sono mai uscito a comprarmi qualcosa da mettermi addosso, ma passando per caso, per altri motivi, anche fuori stagione, trovo magari cose che mi piacciono molto, e le sento subito mie. Le prendo e questo vale soprattutto per la mia musica. Con questo voglio dirti che scopro la direzione che voglio prendere per un prossimo lavoro solo quando l’ho già presa. Amici, collaborazioni, viaggi, letture, e la vita intera fanno tutto il resto. Nello specifico, Passi era uno sfogo in cerca di qualcosa di più semplice e immediato del lavoro di gruppo con Settore Out che per me ha avuto un valore inestimabile ma che a un certo punto era diventato davvero complesso. Canzoni per uomini di latta si è generato per reazione a Passi, con Daniele (Denti) che l’ha prodotto abbiamo cercato la soluzione migliore per ogni canzone, a partire dai numerosi musicisti che abbiamo coinvolto, ed è stata un’esperienza notevole.
Tra i tuoi due dischi da solista c’è stata una lunga parentesi dedicata a forme musicali particolari: i canti di lavoro e di resistenza. Com’è nato e come hai sviluppato l’interesse per queste musiche popolari?
Già con Settore Out, pur componendo musiche e testi assolutamente inediti, abbiamo sempre dedicato un piccolo spazio, a modo nostro, a canti popolari, di lotta operaia. Vedi ad esempio Vincenzina e la fabbrica, Come mai sempre in culo agli operai, ecc. Poi ho avuto un lungo periodo di collaborazione con Michele Anelli dei Groovers, portando in giro canti della resistenza e canti operai, del lavoro, non ultima la collaborazione con il gruppo delle “mondine” di Melegnano, quindici stupende ragazze che mi hanno aperto un’altra finestra su questa impossibile, frenetica, dura, fantastica vita. Anche qui, come vedi, è stato tutto frutto di una curiosità e di un’apertura senza condizioni, anche se c’è un aspetto fondamentale da ricordare che lega insieme queste canzoni, che è quello della memoria. Ogni volta provo a rispondermi alla domanda: cosa saremmo senza memoria? E queste canzoni mi dicono da dove sono partito e dove arriverò.
Veniamo al tuo ultimo disco, pubblicato a lunga distanza dal precedente Passi (2000). Il materiale è recente o lo hai raccolto negli anni, parallelamente alle tue ricerche sulla musica popolare? Parlaci un po’ della gestazione dell’opera…
Ho capito ad un certo punto che stavo facendo un disco vero. Sai, quando feci sentire Passi agli amici o ad altri musicisti il messaggio era: questo sono, questo è. Molto minimalista. E ti assicuro che questa è sempre stata la linea di Settore Out. Ma, sai, si cresce e mi sono accorto che con un piccolo sforzo avrei potuto fare molto di più e dire: okay, questo sono io, ma potrei anche essere così oppure potrei diventare così. Insomma, mi sono lasciato aperte altre porte. Ho preso in mano un paio di testi vecchi di almeno quindici anni e come per incanto hanno funzionato (Raccolgo la vita) e, siccome io meno faccio una cosa e meno la farei ma più la faccio e più la farei, con alcuni amici e collaboratori (Daniele, Michele, Claudio e Marco) ho cominciato a lavorare seriamente nel nostro piccolo studio di registrazione almeno una o due volte la settimana, ed ogni volta registravo una canzone nuova: è stato un periodo fantastico, e sai quanta birra!
Canzoni per uomini di latta è uscito nel 2009, è già stato metabolizzato in qualche modo. Guardandoti indietro, come ti rivedi nei tuoi due dischi personali? Come sono cambiati la scrittura e l’approccio, tra Passi e quest’ultimo lavoro?
E’ proprio vero che si cambia, spero in meglio. Ho sempre composto vagoni di musiche, senza testo: anche con Settore Out entravamo in studio per registrare il nuovo disco con testi scritti a metà, passavamo giornate in sala prove con volumi impossibili ed io che sfoderavo parole in finto inglese, e il risultato immediato erano soltanto delle grandi risate. Poi improvvisamente il testo è diventato dominante e mi sono chiesto: non sarò mica un cantautore? Non è che ho preso quella malattia? E’ come se improvvisamente, capisci, sono le parole che ti portano da qualche parte e tu devi scrivere, devi esprimerti, più o meno chiaramente non è importante, ma devi farlo. Poi quando rileggi ti accorgi che la musica è già lì che ti aspetta. Questo è stato il passaggio più importante.
Nonostante tu suoni molti strumenti, Canzoni per uomini di latta colpisce anche per il numero di ospiti e musicisti che hai coinvolto. Ci racconti qualcosa di queste collaborazioni?
Se non dovessi più suonare, per qualche motivo aprirei un campeggio, sai, di quelli in mezzo alla natura, tipo all’Argentario. Solo per ricevere tutti gli amici e conoscere sempre persone nuove. Che senso ha fare una cosa da solo? E te lo dice uno che vivrebbe su un’isola deserta (con una donna) ma sai… alla fine ti completi se vivi all’interno di legami, di rapporti, di una condivisione. E così è stato: i musicisti li abbiamo cercati a partire dai batteristi perché volevamo che le canzoni fossero sostenute dal punto di vista ritmico e così abbiamo chiamato Diego Galeri che conoscevamo dai tempi dei Timoria e poi due eccellenti jazzisti, Cesare Bernasconi e Stefano Bertoli, che tra l’altro ha suonato anche nelle nuove canzoni che ho registrato recentemente. Alle tastiere è venuto Paolo Montanari con cui mi lega la lunga militanza nei Groovers e Fidel Fogaroli dei Verdena che mi ha seguito anche per il prossimo disco. Come vedi, qualche vecchio amico, qualche nuova scoperta.
C’è un brano a cui ti senti particolarmente legato?
Lello.
Ora a quali progetti stai lavorando? Composizione musicale, ricerche, concerti…
Sto cercando di approfondire la mia conoscenza con la musica di Johnny Cash: mi piacerebbe portare in giro, in un progetto parallelo al mio lavoro, un piccolo repertorio. Sto cercando di imparare a memoria tutti i dialoghi dei film dei fratelli Cohen, mi piacerebbe mettere in ordine tutte le canzoni di Boris Vian, Rino Gaetano, Ivan Graziani, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Piero Ciampi (il più grande), Ivan Della Mea che ho suonato e che suonerò. Sto completando il mio ultimo lavoro che uscirà la prima settimana di giugno 2010 e sto cercando disperatamente il numero 49 di Tex Willer.