Senti che stai osando. Stai osando parole, le solite parole, per qualcosa di raro, insieme enigma e cardine. Piove, acqua sporadica e primaverile. Piove un freddo che non è aprile e non è nemmeno autunno. La sensazione del volo, volo che conduce, non ti abbandona, e le scale strette che percorri per arrivare al luogo della musica sono una discesa leggera, di passi insoliti ed educati. La sera è gialla, fumosa, fra le pareti di questo sottoterra che cova bellezza a modo proprio. Il palco è stretto, un buco di palco dove i centimetri sono tasselli, pezzettini di un puzzle incastonato ad arte perché non manchi nulla, perché niente vada sprecato. Percepisci la fatica fatta perché tutto torni, perché possa andare tutto come si deve. Ti guardi attorno e gli sguardi che incroci sono sguardi amici, amici di quelle canzoni che non riescono davvero a restare solo canzoni.
E’ Il primo lunedì del mondo anche e proprio oggi, te ne accorgi dai dettagli: Frequent Flyer lo sussurra dal mixer, prima che irrompa il suono, prima che quella voce densa, senza pelle, lo renda innegabile. Questione di rinascite, di qualità, di essere portati via, lungo i tratti di quel privatissimo che i Virginiana Miller ti indovinano in seno e accudiscono, scandiscono, consacrano. È un rito rock quello che si consuma nello spazio fra il loro corpo a sei anime e le nostre fronti allargate di piacere: un rito d’ancore, di note e parole che non scivolano via ma s’immolano, elettriche come sanno esserlo la malasorte e l’amore, poetiche come il caso, come l’urgenza pudica di certo caso. Il Presidente, C64, Uri Geller, Acque sicure: le chitarre esplodono, le traiettorie ritmiche si aggiustano sulle spalle l’abito migliore, l’impronta melodica è carne, il regalo dell’ugola un pegno a essere qualcosa di più, quel tanto in più che è la differenza migliore. Generosi, candidi, accaldati di un caldo umido e denso di rispetto, i Virginiana Miller si donano appieno, live di fatto, immuni alle pose, nudi e crudi: La verità sul tennis, E’ la pioggia che va, La risposta, L’angelo necessario, L’anno dello scambio culturale Italia – DDR, Lunedì, Dispetto, L’inferno sono gli altri. Scivolano una dentro l’altra, ti si annidano fra le scapole, le riconosci e ti riconoscono, ti scovano da dove ti andavi nascondendo e ti sbugiardano, la storia che sei, il racconto che tieni. I poeti gli occhi li tengono socchiusi, rivolti dentro, ma poi ti guardano e quando lo fanno è un livido ed ha i colori del privilegio. I poeti hanno mani che tremano: mani ferme di un tremore veggente, impotente del peso dei forse, intrepido del colore dei no. I poeti le canzoni le vivono, non le spingono via ma le accompagnano, con il corpo-gomitolo teso ad arco, proteso ad uncino. È poeta quell’uomo che canta, ti si porge, raccoglie i segni dei compagni nelle retrovie dei cavi, spinge la voce fino in fondo, in un luogo che compare liquido, amniotico di bisogni, scuro di trasparenze e di segni. La carezza del papa è participio presente di ritorno: ritorno a casa, al mondo, al sangue. Una due venti ventuno gocce ed ognuno labile scivola giù / giù dove non si tocca, oltre le acque sicure: L’estate è finita/ Acque sicure, simbiosi d’arrivederci e brividi, brividi che ti indovinano la schiena e non ti lasciano, non ancora, fino a che gli orologi tornano a piovere tempo nel tempo. Finisce così, con una mano a scarmigliarci i capelli, nell’aria l’odore buono della complicità, di un poco di tempo rubato all’affanno e regalato alle piccole cose che contano, quelle che ti marcano gli occhi, segni di amore sicuro. Forse stai osando. Ma ne vale la pena. (Foto di Roberta Molteni)