LostHighways fa tappa al F.I.E.S.T.A., festival estivo organizzato da La Fabbrica, Trovarobato e Che Torni Babele nel suggestivo fresco abbraccio degli alberi e del prato del Botanique di Bologna. Serata dedicata ai cantautori nostrani ed indipendenti: mentre sul palco Dino Fumaretto diverte e sconvolge il pubblico, incontriamo Nicola Pellegrino, in arte Nicodemo.
Il suo disco, In due corpi, si snoda con grande personalità in territori musicali vasti e complessi. Elettronica, jazz, rock e cantautorato: un disco torbido, ricco di spunti di riflessione, non immediato ma profondo, capace di scavare con i suoi pungenti dettagli capaci di scardinare ogni sistema di difesa emozionale.
Nicola si dimostra una persona affabile e gentile, quasi stupisce riconoscerlo nella stessa persona che ci si immagina durante l’ascolto del disco. L’austerità poetica e formale delle canzoni lasciano il passo alla cordialità, donando alle risposte alle nostre curiosità una bellissima naturalezza. Nicodemo ci parla del suo disco, dei suoi ascolti, della spontaneità e della bellezza della complicazione.
(Si ringrazia per la collaborazione Giovanni Gigantino-La Fabbrica; Le pareti, Opto per la radio e Telenovele sono in streaming autorizzato)
Partiamo dal principio: dove e quando è nato Nicodemo dal corpo di Nicola Pellegrino?
Io ho iniziato come bassista all’età di quindici anni, in giro per i locali con cover band. Poi la passione per la musica è maturata fino a quando ho scritto la prima canzone: Palude. Sono partito con questa nuova avventura: Nico-Demo, demo da “demostration”, il classico “demo” che tutti gli autori, agli esordi, usano come biglietto da visita.
Del tuo disco mi ha stupito lo stampo cantautorale. La figura del cantautore è rara ormai soprattutto nella musica trasmessa dai media. Nell’ambiente indipendente invece questa figura persiste e si rinnova (penso tra i tanti, con le doverose differenze, a Vasco Brondi, Dente e perchè no, anche Dino Fumaretto). Cantautore è un termine che ti senti calzare bene addosso?
Sì. Ti dirò: cantautore è un termine che mi sento addosso, vuoi forse per la particolare attenzione ai testi. Ma non quell’attenzione tecnica, quella spinta dal “devo scrivere una grande poesia che arrivi a tutte le persone”: no. Intendo la semplice voglia innata in me di fare questo; nasce tutto in modo molto spontaneo, dal divano di casa con la chitarra ed il foglio protocollo. Si vivono le proprie giornate (isteria, amore, simpatia, sofferenza), e poi quando giunge il momento in cui si è più predisposti, le canzoni nascono quasi da sole.
Come dicevo, il disco è anomalo per questi tempi: riesce a coniugare la figura del cantautore che era più forte nel passato, ma allo stesso tempo prende le distanze da ciò che c’era prima. Nei brani di In due corpi, la musica è moderna, molto varia e curata, c’è l’uso dell’elettronica… quando hai capito che le tue canzoni dovevano essere così?
Sì, in effetti io penso che musicalmente ognuno di noi sia il frutto di ciò che ha ascoltato ed assimilato. Io vengo da David Bowie, Peter Gabriel, ed automaticamente mi sono infilato in questo tipo di percorso. Oggi, sicuramente questo genere è molto difficile perchè lontano da, ad esempio, ciò che viene portato in televisione. Essere indipendente però porta anche alcuni vantaggi, come il fare, in qualche modo, ciò che davvero si vuole davvero. Per quanto riguarda poi il coniugare il “gusto retrò” e la modernità, questo è frutto invece dei miei ascolti attuali. Ho frequentato parecchi producer elettronici, dai quali ho carpito lo spirito con il quale poi si approntavano alla realizzazione dei propri brani.
Certo, figure come De Gregori, Dalla, De Andrè, che erano riusciti a conquistare un pubblico vastissimo, non esistono più. E’ una questione di demerito della scena attuale o un problema più ampio?
Fondamentalmente è un problema di spazi. Ma ultimamente, in realtà, vedo una sorta di miglioramento del panorama underground riguardo il cantautorato. Tu prima hai fatto degli ottimi riferimenti con i quali concordo pienamente: Dente, Vasco Brondi e lo stesso Dino Fumaretto con il quale ho il piacere di condividere il palco questa sera. Dobbiamo comunque ricordare che anche il buon De Gregori, in passato, ad un concerto fu praticamente cacciato via dal pubblico, penso quindi che le sofferenze siano proprio tante, e per molti.
Nel tuo disco, l’importanza della parola è evidente al primo ascolto. Non cerchi la rima baciata, ma assonanze, musicalità nelle frasi e non nelle singole parole. Non cerchi l’immediatezza, ma la profondità. Prima dicevi che non ti interessa la “poesia” con la “P” maiuscola, però comunque, riesci a riconoscere la tua come tale?
Certo, la riconosco assolutamente come poesia. Ma più che poesia, la riconosco in quanto creatura nella sua accezzione più dolce. In realtà però non calcolo molto la prassi. Non penso troppo al mezzo, non ci sono forzature. Per realizzare questo album ho impiegato quattro anni, ma capitano giornate che si scrivono quattro canzoni in una volta.
Ritieni che sia più importante ciò che si vuole dire o il come lo si dice?
Che domanda tremenda… guarda, oggi… come lo si dice. Io ho trentacinque anni, non sono anziano ma forse manco tanto più giovane: sono della scuola che deriva dalla prima opzione. Penso che sarebbe bello trovare in coloro che ti ascoltano un tipo di comunione senza troppe spiegazioni. Scrivo canzoni, ma non mi nobilita il doverle spiegare. Con la musica questo non dovrebbe accadere, ma questo vale anche nelle altre arti, come la pittura. Come si può spiegare un quadro? Lo guardi, è lì. Ti parla.
Ti voglio però un poco forzare: mi ha colpito fortemente la frase d’esordio del disco “Complicarsi è bellissimo” (Le pareti). Non ti chiedo spiegazioni sulla canzone, mi limito a questa frase: complicazione intesa come crescita? Come via di fuga? Cosa intendi?
Assolutamente non una via di fuga, anzi, una recriminazione. Tante persone si urtano di fronte ad un contrattempo, ma invece un contrattempo (parlo di quelli “decenti”) innervosisce positivamente la giornata. Inoltre ci sono alcune persone che si permettono il lusso di mettere in discussione la tua voglia di essere diverso da loro, complicato.
La complicazione si ritrova anche nella tua musica…
Questo disco mi ha reso proprio contento: in quattro anni di gestazione abbiamo riservato attenzione paritaria anche al lato musicale. Non abbiamo mai pensato ad una canzone immediata ma ad una composizione che in qualche modo spiegasse il nostro stato d’animo in quel momento. Parlo sempre al plurale, perchè in questa storia partecipa anche Gaetano Maiorano, chitarrista e costola del progetto. Abbiamo quindi deciso di coinvolgere una sessione d’archi, grandi amici e grandi musicisti ed una marea di ospiti. Credo che queste collaborazioni abbiano permesso al disco di essere un po’ più variegato; è stato facile perchè ho mandato loro le basi, e senza troppe spiegazioni e con tanta disponibilità, le canzoni sono nate, come dicevo prima, con tanta spontaneità.
Sei in grado di passare a canzoni molto ricche negli arrangiamenti, ad altre estremamente essenziali: anche quest’ultimo è un modo di complicarsi, no? Individuare cosa eliminare, cosa è di troppo…
In effetti è proprio quello il discorso! E’ proprio così. In ogni caso l’importante è descriversi, in modo sano e fedele.
Dal vivo come ti comporti? Cosa cambia nell’esecuzione?
Il live è una forte sintesi di quello che è nel cd, oltre ad alcuni brani del vecchio repertorio. Si alterneranno momenti di isteria/frenesia, ad altri di estrema dolcezza, tutto ciò che a me interessa nella vita. Comunque nel momento isterico, non sono un folle; so fermarmi: diventare papà significa anche questo.
Anche per un altro fattore il tuo lavoro è anomalo: da una parte La Fabbrica, giovane piccola etichetta indipendente, e dall’altra parte una costola di un colosso come la Rai. Puoi spiegarci questo connubio?
La Fabbrica è guidata da Giovanni Gigantino, amico da sempre e straordinario organizzatore di eventi: basti pensare a Salotto Muzika! Sono affiliato ad essa praticamente da sempre. Sia Il treno per Bologna che In due corpi sono marchiati e sostenuti da questa etichetta, molto attenta ed attiva nel panorama underground. L’incontro con Rai Trade è stato conseguenziale all’esperienza avuta con Riddim a Sud di Teresa De Sio (progetto di cui ho fatto parte con il brano A Sud non c’è elettricità) e, quindi, con la C.O.R.E. di Marialaura Giulietti. Ecco fatto, il connubio… più “naturale” del mondo.
Poi non ti nascondo che quando sono tornato a casa, dato che i miei genitori sono del ’30 e del ’33, il logo Rai mi ha concesso un po’ più di autorevolezza!