Americani, di New York. Muovono i primi passi e lo fanno bene, con uno stile preciso che si sceglie un punto geografico del vecchio continente. La Manchester di Ian Curtis. Abbracciano la new wave. Ma non è tutto qui. Il cielo grigio, l’aria bassa, la claustrofobica aria dei pensieri a mal rendere si infilano nelle parole e nei suoni. Come se fosse un umore assopito che trova la sua pozza dei riflessi. Poche storie: gli Interpol sono in debito con i Joy Division, gli devono il DNA. Eppure c’è qualcosa, una mutazione . Una malattia che spiega un successo che non è semplice nostalgia di chi si è perso un genio, o di chi ne ha visto la scia mentre cadeva, stella finita sul suolo di una tristezza inarginabile. Ian Curtis era questo. Ma tra l’imitazione e l’ispirazione ce ne passa.
Gli Interpol sono americani. Questo li salva. Li salva la polvere nella bocca di Paul Banks, una certa energia che è lieve sfumatura nelle somiglianze, così lieve da firmare la differenza. Li affranca quell’attitudine indie che si automaledice con qualche compromesso, e così al buio affiancano la luce, alle criptiche volute mescolano la semplicità del rock più aperto, alla sperimentazione preferiscono riff di piglio. E fanno ombra sulle liriche, le chiudono a chiave perché possano essere sfondate. E poi rimangono sulla linea, in equilibrio perfetto per non cadere. Al di là dei fenomeni vuoti, al di qua della pesantezza troppo profonda condannata ai posteri! Fanno anche un po’ i fighetti. Questo vuol dire sapersi vestire, porre e fare di un contenuto anche una tendenza. Si tratta di convinzione. Poche chiacchiere.
Nel 2002 raccontano al mondo chi sono con la bellezza nera di Turn on the Bright Lights. Un album perfetto nelle sue devozioni, declinazioni, e ostentazioni. Tutto da prendere con relativo paradosso. E nell’eccesso che dimora la verità e s’equilibra. Untitled, Obstacle 1 , Leif Erikson sono piccole gemme di individualità e originalità, per quanto semplici e dirette; NYC è purezza, meraviglia: testo sporco e intenso, confine sonoro che esplode in una coda di ripetizioni che si fanno mantra della disperazione.
Due anni dopo infilano dentro Antics il cambiamento. Accelerano i tempi, amplificano le possibilità. L’amore striscia nelle liriche e ne diventa colore dominante. Nex Exit, Evil, Slow Hands sono di gran fattura e da sole non valgono l’album! Non lo valgono perché competono con una serie di pezzi tutti meritevoli.
Il 2007 vede gli Interpol fagocitati dalla Capitol (siamo in odore EMI), e Our Love to Admire è un lavoro a metà. Levigato e paludoso. Fastidioso. Pioneer to the Falls ha una caratura a parte.
An End Has a Start dei cugini Editors offusca la luce degli Interpol… in quel periodo.
Nel 2009 arriva il disco solista di Banks, che sfodera il suo pseudonimo: Julian Plenti (un gioco che tira in ballo il secondo nome del frontman). Julian Plenty… is Skyscraper è una parentesi, una sorta di esercizio in cui la penna e l’estro si consumano nell’attesa di riversarsi altrove. Ovvero in un’opera che sia ancora targata Interpol.
Così, sotto l’egida dell’indipendente Soft Limit (rappresentata dalla Cooperative Music), il 7 settembre (13 nel Regno Unito) gli Interpol lanciano il quarto album in studio. Un omonimo. Semplicemente Interpol. E se questo non è già un segnale sufficiente, allora l’ascolto consegnerà il giudizio in modo analitico! La band torna indietro. Un approccio orchestrale afferra il passato e riporta il sound a quei chiaroscuri e a quella compattezza che gravitavano intorno ai primi due capitoli della loro storia. Malinconia, arrendevolezza, introspezione, chiusura. Tutto torna grigio su quel cielo che scorre come un mare d’autunno.
Registrato presso gli Electric Lady Studios a New York, interamente prodotto dagli Interpol e mixato con Alan Moulder (Depeche Mode, Nine Inch Nails, Palcebo, A Perfect Circle) negli studi Assault and Battery a Londra, il disco è stato anticipato da Barricade e Lights. Il primo lanciato in modo canonico e con un videoclip rispettoso di certi stilemi, il secondo diffuso in free download e accompagnato da immagini inquietanti firmate dal regista e fotografo Charlie White. Il video di Lights si distingue per una sintassi da scenario post modermo, ai limiti del fetish imbevuto di dettagli gothic. Complesso nella lettura e disturbante nel risultato. E così doveva essere per un brano nervoso, burrascoso, notturno nelle linee melodiche e nel testo. Il desiderio ne è al centro, in forma di contraddizione e inquietudine, possibile e impossibile, sospensione. E si trasforma in una sorta di linfa sintetica iniettata senza possibilità di rifiuto, scatenando poi il rigetto e… il dolore: “All that I can see / a gold mystic spree / seeithing routine / I could never navigate / maybe I like to stray”.
Gli Interpol sono attesi live (saranno anche supporter degli U2). E in quella dimensione si misureranno con un cambio di line up: il bassista David Pejo prenderà il posto dello storico Carlos Dangler.