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Certe storie non si chiudono: intervista a Emidio Clementi (Massimo Volume)

massimovolume_inter011110“Il peso,/ il peso che portiamo/ è amore” (A. Ginsberg, Canzone). Le storie possono finire. E così era sembrato per un gruppo come i Massimo Volume. Un inizio, intorno al 1992 se consideriamo quel demotape che aprì il corso a quattro dischi indimenticabili, una scena segnata con la classe dell’originalità, una firma sulle pagine del rock nostrano portato fino alle sue estreme derive, la parola esplorata e domata, live memorabili. Fine, nel 2002. Da quel momento il ricordo non si è cristallizzato, ha alimentato una leggenda che ha portato alla crescita di un pubblico sottile che si è ritrovato a partire dal Traffic Festival del 2008 al cospetto di una reunion che non suonava affatto come la celebrazione di un passato fine a se stesso. Certe storie non si chiudono. Infatti i Massimo Volume hanno consegnato a questo autunno 2010 un disco di inediti che è forse il loro capolavoro, e senza ombra di dubbio è  tra le migliori uscite in Italia da molti anni a questa parte. Cattive abitudini vive di una poetica delle evocazioni, della compattezza di un sound ossessivo e mantrico, di spazi aperti e di spazi contratti, dell’equilibrio tra canzone e racconto. Ne abbiamo parlato con Emidio Clementi, forse a Coney Island… sui resti del ‘900. (Foto di Massimo Spadotto)

Dal Traffic Festival del 2008 era nell’aria un’energia che avrebbe portato i Massimo Volume non ad una reunion occasionale ma prospettica. Da allora un memoriale live come Bologna Nov.2009 e finalmente in quest’autunno un disco di inediti. Cattive abitudini arriva dopo undici anni da Club privè. Come ha inciso questo scarto temporale sulla composizione e sullo stato d’animo?
Difficile dirlo. Sapevamo che c’era attesa, che i nuovi brani sarebbero stati messi a confronto con i vecchi e che -con ogni probabilità- ci sarebbe stato qualcuno pronto a puntare il dito contro sostenendo che non eravamo più gli stessi. Lo sapevamo, però non siamo stati ossessionati da pensieri del genere. Le canzoni sono uscite fuori in fretta e in leggerezza. Non abbiamo avuto tempo di fare calcoli.

Il titolo del disco vibra all’interno del testo de Le nostre ore contate. Lo hai estratto da lì oppure nasce a priori?
Pensando a una parola o a una frase che da sola potesse riflettere il senso del disco, cattive abitudini mi sembrava la meno pretenziosa. Ha un sapore domestico, accogliente. In fondo chi non è vittima di qualche cattiva abitudine?

La sconfitta non è una resa. L’ho pensato subito dopo aver ascoltato Invito al massacro e In un mondo dopo il mondo
“Quello che possiamo è solo provarci. Il resto non ci appartiene”, dice Eliot. Mi sembra una frase che si sposa perfettamente con il destino dei protagonisti di Cattive abitudini.

Posso chiederti di raccontarmi la genesi di Invito al massacro?
Musicalmente è stata una delle prime idee su cui abbiamo lavorato. Ci piaceva lo scarto dinamico presente tra la parte recitata e il tema, così come l’andamento strascicato della ritmica, quasi avulso dal resto. A qualcuno ha ricordato i CSI e persino i Radiohead, mentre a me fa venire in mente i Pink Floyd. Per quanto riguarda il testo invece è forse il meno lineare del disco. Contiene tre quadri differenti e -a posteriori- può essere letto come uno sviluppo di ciò che accenno ne Le nostre ore contate, mi riferisco a quel: aggrappati a un’immagine condannata a descriverci.

In questo ultimo disco soprattutto percepisco un equilibrio perfetto tra il racconto e la canzone. Tra la sabbia dell’oceano mi ha particolarmente impressionata, sembra condurre altrove come una storia perfetta sa fare, e innesca curiosità, voglia di saperne di più. Per te si tratta di testi compiuti, o senti che alcuni stiano covando anche un altro destino?
Forse qualche testo poteva diventare un racconto, ma credo che avrebbe perso forza se avessi eliminato tutta quell’aria che scorre tra una frase e l’altra. Ultimamente, durante le interviste, mi capita di dire troppo al riguardo. Vorrei invece che fossero gli ascoltatori a illuminare le zone d’ombra presenti nei testi.

Le suggestioni della letteratura americana sono semi sparsi tra gli angoli di questo disco. Affiorano e si lasciano intuire, del tutto parti delle tue parole…
Dentro c’è di tutto, non solo letteratura americana: c’è Cohen, Auden, Dylan Thomas, Ferlinghetti, Montale, Vic Chesnutt, Sofia Coppola, Ray Bradbury. Mi piace rubare a gente del genere. Posseggono un mucchio di roba preziosa.

Robert Lowell: quel monotono sublime e Walking in the blue che la splendida voce di Tom O’Bedlam anima nel brano d’apertura. Raccontami di questa convergenza con la poetica dei Massimo Volume…
Leggere Lowell è stato molto importante per trovare la voce adatta alle atmosfere del disco. Mi piace il suo tono discorsivo, assolutamente privo di enfasi eppure così penetrante e narrativo. C’è una poesia in particolare che trovo perfetta in questo senso. Si intitola Water. Una specie di romanzo concentrato in una manciata di rime. E’ quello che ho tentato di fare ne La bellezza violata e Tra la sabbia dell’oceano.

massimovolume_inter021110In Fausto si muovono le ombre di Fausto Rossi e Allen Ginsberg (Urlo, Canzone, ndr). Raccontami il filo sottile con cui li hai legati…
Ginsberg è sempre stato una fonte di ispirazione per Fausto. E’ stato naturale accostarli. E poi mi piaceva usare l’incipit di Urlo e trasformarlo in parodia. Purtroppo ci aveva già pensato Ferlinghetti anni prima. “Abbiamo visto le menti migliori della nostra generazione/ distrutte dalla noia ai readings di poesia”.

Coney Island richiama un luogo che ha avuto un fascino sinistro e veggente per certa letteratura americana. Una Coney Island della mente è in Primavera nera di Henry Miller ed è una raccolta di poesie di Lawrence Ferlinghetti. Mi racconti la tua Coney Island?
E’ la Coney Island vista in un pomeriggio d’inverno insieme a un amico del cuore, mia moglie e mia figlia. Quante cose si possono catturare di un luogo così evocativo in un paio d’ore? Non ne ho idea. Passeggiando lungo Brighton Beach ho però avvertito distintamente la fine del ‘900 ed è stata una sensazione da brividi.

Mi parli dello spazio di questo disco?
Mi sembra un paesaggio piuttosto mosso, fatto di spazi urbani e ampie distese. E’ uno spazio che chiaramente si è costruito da solo senza nessun tipo di progettualità, anche se adesso posso osservarlo e divertirmi a comporre una mappa: la Grecia, New York, la finestra dello studio di casa mia, Milano, la Nuova Zelanda, Berkeley.

La tua scrittura è atto fisico nel libretto di Cattive abitudini, non c’è filtro perché i testi sono scritti di tuo pugno su fogli di bloc notes. Parlami di questa scelta e dimmi cosa pensi di una manualità della parola che questa fredda epoca della rete sta perdendo…
Mi piace riprendere in mano i vecchi dischi di Neil Young e osservare la sua calligrafia elegante e appuntita che per un certo periodo, durante la mia adolescenza, ho anche tentato di imitare. I testi di questo disco li ho sempre immaginati così come li vedi. Per questo ho passato due anni a raccogliere i fogli intestati degli hotel dove ho dormito. Volevamo una copertina vecchio stampo. Pre-computer. Intima.

Dimmi dell’attuale formazione dei Massimo Volume e del suono che ne è seguito…
Sono convinto che sia la nostra migliore formazione di sempre. Ognuno riesce a trovare il proprio spazio all’interno di una composizione e il suono che esce fuori mi sembra fresco ed eclettico. Non so quali sviluppi potrà prendere in futuro, che tipo di musica suoneremo. Meglio non interrogarsi troppo sui processi creativi.

Questo disco è stato registrato in una villa sull’argine del Po, bloccando il tempo, dandogli un ritmo diverso. Mi racconti quel distacco cercato?
E’ stato Francesco Donadello, il fonico, a spingere per registrare alla Campagnazza. Ci piaceva l’idea di un posto non troppo lontano da casa ma sufficientemente isolato, in cui poterci concentrare. La presenza del Po i primi giorni mi inquietava, ma col passare dei giorni ci ho fatto l’abitudine. E’ impressionante quante tinte diverse riesce ad assumere. In alcuni giorni è azzurro come il mare, in altri sembra una palude. Molto umorale.

La scelta di registrare in analogico non è ideologica ma affettiva. La tua motivazione mi ha colpita. Quanto, invece, per molti colleghi è semplicemente una moda?
Nel rock c’è sempre stata una corrente filologica. Ricordo i gruppi garage della fine degli anni ’80. Non c’era un potenziometro della loro strumentazione che non avesse almeno vent’anni. Io non riesco a distinguere un disco registrato in analogico da uno in digitale. Però l’infinita gamma di possibilità offerta dal digitale può essere nociva. La scelta dell’analogico è da leggere in questo senso: limitare la tavolozza a pochi colori, quelli di cui abbiamo bisogno.

La musica può essere ingannata? C’è chi ne costruisce e non segue una reale ispirazione, semplicemente ammaliato dalle regole di un mercato? Quindi la musica può essere una merce… lo è, oggi per l’artista stesso?
Quello dell’ispirazione è un terreno molto scivoloso. Se uno mi chiedesse quanto ero ispirato quando ho scritto un determinato testo non saprei cosa rispondere. La cosa che conta è se con quel testo sono riuscito a trasmettere qualcosa. Non importa se stavo bluffando o ero sincero. Se ho usato dei trucchi o pensavo a fare quattrini. Non c’è una morale nell’arte. Né bene né male. Solo cose che funzionano e altre no.

massimovolume_inter031110La scena. Può essere la definizione di un fermento culturale ma anche un’immagine autoreferenziale e vuota. I Massimo Volume, con Cattive abitudini, sentono un’appartenenza presente/passata o vivono un’assenza di collocazione?
Personalmente mi sento di appartenere alla scena del rock italiano e ne vado orgoglioso.  Al di là delle differenze di stile e delle simpatie personali, i Massimo Volume vivono la realtà della scena italiana. Suonano nei locali dove suonano gli altri gruppi, appaiono sulle stesse riviste, hanno spesso lo stesso pubblico.

Stiamo vivendo davvero un periodo di decadenza?
Non ho questa percezione di decadenza. Forse se prendiamo a esempio la classe politica, ma non voglio dare troppa importanza ai politici. E’ da più di tremila anni che l’uomo è convinto di vivere in un’epoca peggiore della precedente.

Fausto – Video

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