Quella poesia dove ci ritroviamo, secondo Lele Battista.
Ha una sua solitudine lo spazio (1695)
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte,
eppure tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’ anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
Emily Dickinson
Questa poesia sulla solitudine di Emily Dickinson ha avuto subito il potere di farmi sentire meno solo, che poi è la qualità che più apprezzo in una poesia. Non ha alcun senso per me distinguere tra opere d’arte allegre o tristi; trovo che una categorizzazione di questo tipo sia limitante, infatti definendo questa una poesia triste si incorrerebbe in un grave errore.
Quell’infinità finita, o finita infinità, come si trova in altre traduzioni, è infatti da una parte l’accettazione della finitezza umana, ma dall’altra una porta spalancata sulla felicità, un invito ad oltrepassare i limiti mentali che ci impone lo stare in società.
Ho letto che l’autrice si auto-infliggeva un isolamento totale dal mondo, convinta che con la fantasia si riuscisse ad ottenere tutto e che la solitudine fosse un veicolo per raggiungere la felicità: forse un atteggiamento un po’ estremo ma affascinante. Tutta la poesia si svolge nelle ultime due parole, che racchiudono una perfetta descrizione dei limiti ma anche del potere della mente.
E’ incredibile infatti come le due parole si bilancino a vicenda, come nessuna delle due immagini prevalga sull’altra, come sia riuscita a dare una sintesi perfetta della condizione umana.