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The King of limbs – Radiohead

A cura di Amalia Dell’Osso e Gianluca Gentile

Quanto tempo fa? Tre anni e poco più dagli arcobaleni. Che importa? Non è la distanza che misuriamo con le lancette, le lune, le stagioni. Non è quella a contare. E’ la distanza mentale-emotiva a significare. Quanti pensieri, umori, tremori, errori, guizzi, loop estetici, saturazioni esoteriche, compressioni cromatiche dista The King of Limbs da tutto il resto che si archivia sotto l’appartenenza Radiohead? Tremilacinquecento intuizioni moltiplicato la semplicità, diviso il minimalismo, più la profezia sensoriale che oscilla tra il dubstep e gli orizzonti tridimensionali di Brian Eno, la folktronica ripensata in chiave epilettica e le bolle di classica sotto l’incantesimo delle reiterazioni, i dedali testuali senza uscita e l’intimismo chirurgico dell’angoscia. Una distanza chilometrica e infinitesima, volendo. I Radiohead cambiano e restano Radiohead.
I Radiohead, certo. Quelli che ad ogni passo sono stati capaci di non somigliarsi e di autocitarsi con il lusso degli apocrifi! I Radiohead-sibille cieche che sapevano il futuro, graffiato con gli spasmi del Kid A e con le scie melmose di Amnesiac. Capitoli germinali, in grado di produrre creature mutanti come In Raimbows e quest’ultimo The King of Limbs. 18 febbraio: sbuca, con un giorno di anticipo, in formato digitale un lavoro di cui non hanno anticipato nulla. Si sono presi solo il gusto di annunciarne l’uscita una settimana prima, scavalcando le buche della promozione tradizionale e usando il web in quel modo intelligente di cui hanno saputo già dare prova. Dal loro sito si acquista musica in formato mp3, waw, e si preordina un’edizione speciale.
Tornano con otto brani appena. Scivolano uno dietro l’altro, semplificandosi e complicandosi ad ogni ascolto. Risultando leggeri come il piombo alato. Immergendo ogni suono in un processo di stratificazione elettronica da agonia autunnale. Un cuore memore che pompa emozioni da tempeste apocalittiche sorde. Un disco che implode su una voce più chiara, più morbida, abile nel modulare l’ansia sfiorando i segreti della melodia. Non chiedetevi dove sia finito Greenwood! C’è!

Apre il cerchio Bloom. L’ incipit rievoca eredità classico-barocche, come una ouverture trans-emozionale di tempi che devono ancora venire. Fugace suggestione che, repentina, si trasfigura in retaggi elettronici tra drum machine, loop e suoni ipnotici, per assurgere a un significato ulteriore. Elementi di una quotidianità che si mostrano nei topoi del genere. Allegoria subliminale del risveglio ciclico. Reiterazioni conturbanti e statiche, quella sola sensazione di movimento suggerita dal basso minimale e poi quegli echi di voci medievali e rinascimentali, imprigionate dagli archi e dai fiati dilatati nello spazio che si slegano per un tratto breve, come ad accennare la via, per plagiare gli attimi, attualizzare quei sospiri di un passato così lontano nel tempo eppure così legato ai sentimenti umani sempiterni.
Un brano che si sveglia dolcemente da un altro mondo per esplodere ossessivo: “Open your mouth wide/ The universal sigh”.

In Morning Mr. Magpie anche le chitarre assurgono ad una funzione ritmica ora stendendosi sull’inesorabile batteria elettronica ora prodigandosi in melodie reiterate, cantilenate, quasi si plasmano e si sciolgono sul suolo di fluttuazioni sonore dallo sviluppo lento.
Una prova di quelle oscurità testuali di Yorke in cui si mescola ironia e sguardo appuntito: “Good Morning, Mr. Magpie/ How are we today?/ And now you stole it, all the magic/ took my memories”.

Little by little si attesta più vicina a canoni già stabiliti dai Radiohead, nelle quali è la voce a dominare i canovacci sonori, ad instillare il turbinio emozionale e melodico.
Sembra invocare la verità dopo la beffa: “The last one out of the box/ The one who broke this spell/ (…)/On ce you’ve been hurt/ You’ve been around enough”.

In Feral anche il cantato si fa strumento soprattutto ritmico e atmosferico, ambientale, finché non entra il basso e allora tutto si slancia in una dimensione circolare, rassicurante, vicina, calda. Le percussioni rivelando buona parte di un protagonismo che non significa egoismo. L’elemento di rottura con una tradizione codificata che si fonde con gli elementi stessi di quest’ultima per scolpirne un valore nuovo e vivo, pur nella tradizione delle realizzazioni radioheadiane. Valore che non può che realizzarsi nel particolare hic et nunc di un momento che diventa irripetibile perché unico.
E’ la sintassi nervosa e spastica del clonato che cresce.

Lotus Flower è il punto mediano, l’equilibrio tra un prima e dopo, tra lo squarcio ansiogeno dei primi tre atti e la discesa melodica intellegibile e rassicurante; un testo regina, di quelli che ricordano di quali suggestivi e intensi incastri siano capaci le parole nella testa di Yorke quando affondano nel liquido mortale di certi sentimenti, del cuore e della sua liberazione; metafora diventa quel fiore di loto tanto caro all’Oriente, affondare per sbocciare, lenti, totali e puri: “There’s an empty space inside my heart/ Where the wings take root/ So now I’ll set you free”.

E la discesa prosegue con tre perle finali che svelano l’altra faccia di questo disco (i Passengers sembrano approvare!).

Codex rallenta, il silenzio si fa veicolo di una purezza intima e segreta, quasi iniziatica, preziosa come il volo di una libellula su acque limpide e serene. Un piano ovattato insieme al battito primigenio della cassa creano la base per il dispiegarsi intensissimo della voce, poi arrivano i fiati dilatatissimi a creare linee armoniche sovrastrutturate prima che altre voci che si aggiungano all’atmosfera plumbea. Gli archi compaiono brevemente per turbare l’estrema immobilità del brano, inserendo una punta velata di tristezza; quegli stessi archi che accompagnavano dolcemente la melodia della voce ora si fanno oscuri, misteriosi, perigliosi, senza turbare comunque la lentezza dominante.
Soundtrack di un campo lungo dove tutto sembra evocare: “You’ve done nothing wrong”.

Give Up the Ghosts concede finalmente una chitarra acustica non trasfigurata e libera ancora quelle percussioni, semplici e profondamente significative. Ma sono i coretti a costituire il sostrato immanente del brano prima che, a turno, un arpeggio e suoni corposi di chitarre elettriche attraversino lo spazio sonoro.
Ha un’aria drammatica e lucida con le sue ondate da mare in ritirata, un loop vocale che è la fine: “Don’t hurt me”.

Separator predilige una staticità reiterata per due minuti e mezzo che soltanto la melodia vocale tende a smussare, seguita di tanto in tanto dal basso prima che gli intrecci di chitarre, gli impasti vocali, la trasfigurazione della pulizia sonora entrino in gioco a cambiare le carte in un climax ascendente proporzionale all’accrescersi della tensione emotiva delle liriche.
Seda definitivamente gli umori impetuosi e schizoidi per dare all’elettronica dei Radiohead un’atmosfera elastica e dilatata, di nudità e profondità: “I fell openI laid under/ At the tip out/ I was just a number”.

Così il cerchio si chiude sul senso di un viaggio sinfonico costruito secondo l’estetica sperimentale di chi, questa volta, ha giocato sul tavolo della linearità e della sottrazione risultando in grado di sferrare una mossa dannatamente moderna, ancora.
Un lavoro piccolo e nuovo, diverso, che tende a mostrarsi più semplice in superficie ma col pregio di generare una miriade di spunti ad un’immedesimazione più profonda. Mostra la grandiosità della piccolezza trattata con la cura e l’amore attraverso la destrutturazione sonora archetipica. Nel contesto risonante dei grandi dj della dubstep e della minimal, le diverse sfaccettature prendono forma man mano, restando in una concezione aperta per la quale quella forma che suggeriscono non è mai la definitiva. Un disco che stavolta non mostra tutte le varianti cromatiche dell’arcobaleno ma che sembra piuttosto attestarsi sul disvelamento di mostri interiori. Un lavoro concepito nella logica della ripetizione, ovvero l’anticamera della rottura.
“Wake me up”: sono le ultime parole di un disco che si contorce su se stesso in un tempo breve e assoluto, nel segno di una sintesi ferace. In bilico tra l’allucinazione e la mancanza, la verità e la predizione, come il sogno.

Credits

Label: Ticker Tape, XL, TBD, Hostess Entertainment – 2011

Line-up: Thom Yorke (voce, chitarra ritmica, pianoforte) – Johnny Greenwood (chitarra, tastiere) – Ed O’ Brien (chitarra, voci) – Colin Greenwood (basso, synth) – Phil Selway (batteria, percussioni, cori)

Tracklist:

  1. Bloom
  2. Morning Mr. Magpie
  3. Little by Little
  4. Feral
  5. Lotus Flower
  6. Codex
  7. Give Up the Ghost
  8. Separator

Links:Sito Ufficiale,MySpace

Lotus Flower – Preview

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Un solo commento

  1. Riesco sempre a stupire. E’ il motivo per cui sono, e resteranno ancora per tanto tempo, la band di riferimento della musica rock e pop

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