Mai come in questi ultimi anni l’underground italiano è caratterizzato da una moltitudine di cantautori emergenti ed interessanti. Se la stragrande maggioranza si ispira a Rino Gaetano, c’è però qualcuno che osa avere riferimenti più difficili ma non per questo impossibili come Fabrizio De Andrè. Questo è il caso del cantautore salernitano Guido Maria Grillo, dotato di un’estensione vocale notevole che gli ha permesso di realizzare due lavori acclamati dalla critica e dal pubblico, il primo omonimo ed il secondo Non è quasi mai quello che appare, dove emergono le sue attitudini principali: una particolare scrittura intimista, riprendendo a tratti la poetica degli sconfitti del Faber, e intarsi sonori degni di songwriter stranieri come Antony and the Johnsons. E’ bello non fermarsi in questo periodo al solo ascolto di mostri sacri e esplorare nuovi lidi di talento. (I brani sono in streaming autorizzato)
Quali sono le principali differenze tra il tuo primo disco e Non è quasi mai quello che appare?
Il primo disco era più scuro, forse più intimo, per tematica e atmosfere. Era quasi un concept, un disco a tema sull’abbandono, la perdita, il dolore. Il suo valore risiedeva nella sua stessa interezza, nel filo invisibile tra le canzoni. Il nuovo disco ha un respiro più ampio, allarga gli orizzonti, ha colori e umori diversi. E’ anche più episodico, le canzoni vivono di vita propria e le tematiche sono varie. Rimane la stessa malinconia che a volte si trasforma in rabbia, altre in denuncia, altre ancora in rassegnazione. Direi che in entrambi i casi sono io, in maniera sincera e, come è normale, in continua evoluzione.
Gli arrangiamenti dei brani di questo tuo secondo lavoro mi sembrano più stratificati e densi rispetto al primo lavoro dove forse emergeva di più un’attitudine minimalista in virata verso l’elettronica. Cosa ti ha portato alla scelta di tale approccio nella composizione delle musiche del tuo nuovo disco?
Qualcuno lo ha definito barocco, io mi illudo sia ricchezza, tu parli di densità. Mi piacciono le orchestrazioni, le sinfonie ma anche il minimalismo. Purchè l’una e l’altra soluzione siano capaci di emozionarmi. L’attitudine “minimalista” del primo disco era il riflesso diretto della sua intimità. Era un sussurro. Ora è un coro.
La tua attitudine cantautorale è ispirata alla tradizione classica (come ad esempio De Andrè) o più verso songwriter stranieri contemporanei quali ad esempio Antony and the Johnsons?
De Andrè è stato una guida artistica e spirituale. Perfetto. In tutto. L’ho amato (e non ho ancora smesso) tanto da aver fatto la mia tesi di laurea su di lui. Dal punto di vista più strettamente musicale, però, sono più figlio degli anni ’90 e successivi. Dal grunge ai Radiohead, passando per Jeff Buckley. Con gli anni ho imparato a stare al passo coi tempi, a tenermi aggiornato, ho accresciuto la mia voglia di scoprire. Oggi sono un divoratore di musica, una spugna che assorbe le novità, che se ne innamora e le odia, le metabolizza e cerca di farne una ricchezza. Per questo motivo è innegabile che perle di questi anni come Anthony, DM Stith, Larkin Grimm, e un po’ più indietro Lhasa o italianissimi Moltheni, Benvegnù, Parente, Capossela e chissà quanti altri, abbiano lasciato il segno. Nonostante tutto ciò, rimango convinto, però, che la mia scrittura, le mie armonie e la mia attitudine siano marchiate a fuoco da ciò da cui provengo: il sud, la Campania e la Lucania, il Mediterraneo, la loro grande tradizione melodica, la canzone napoletana. Nell’uso della voce, nelle note, nelle arie, nella passione delle parole, nella malinconia. E’ il mio codice genetico.
La poetica degli sconfitti affiora in due brani del tuo disco, Il Tango dei naufragati e L’età dell’oro nero. E’ una tematica attualissima se pensiamo alla Libia e alla Tunisia…
E’ una tematica tristemente attuale ma il fatto che io abbia scritto queste canzoni prima che l’Africa si ribellasse ai suoi sanguinari padroni dimostra, purtroppo, che non ha mai smesso di essere attuale. Lo è da decenni o secoli, lo sarà ancora a lungo. Il Tango dei naufragati è un racconto universale, simile a tutte le storie di emigrazione e naufragio che quotidianamente conosciamo, segnato dall’ineluttabilità, dalla rassegnazione, dall’inutilità della preghiera e del cercare ragioni altrove.
L’età dell’oro nero è la fotografia di un atteggiamento che non fatico a definire “sciacallaggio” di cui una parte dell’Occidente (probabilmente quella che poteva e può permetterselo) è stata, è e sarà protagonista. Tratta dell’appropriazione di risorse altrui, delle ricchezze d’altri popoli e d’altre terre, della famelica corsa al potere, al petrolio, a costo di indebolire o distruggere popoli e mondi già deboli e malati. Tutto ciò alimenta le distanze, rende più profondo l’abisso che separa l’Occidente da quello che noi chiamiamo “terzo mondo”, che sia Africa o una parte di Medio Oriente, oltre che alimentare sentimenti di vendetta e di odio, che sfociano in violenza, come da un decennio stiamo sperimentando. Siamo noi ad aver creato i “mostri” da cui ora ci difendiamo.
Estistenzialismo e amore sono altri due temi delle tue canzoni. Quanto di esperienza biografica c’è in questa scelta?
L’esperienza biografica è tutto nella scrittura delle mie canzoni, anche laddove non parlo esplicitamente di me. In ogni parola, in ogni sussurro, in ogni grido, in ogni nota c’è il mio mondo, c’è quello che mi accade, quello che vedo intorno a me, quello su cui quotidianamente rifletto. Vivo la musica come espressione diretta del sentire o come bisogno di sfogo. Odio per questo qualsiasi forma di musica preconfezionata, scritta a tavolino, costruita in funzione di. Le manca quello che per me è il fondamento di qualsiasi espressione artistica: la spontaneità, l’ispirazione, la sincerità.
Per Guido Maria Grillo scrivere e comporre una canzone che tipo di esperienza è?
Quella di cui ho appena parlato. È uno sfogo, la necessità di esprimere un sentire, di cercare la bellezza, di emozionarmi. Devo essere io il primo ad emozionarmi, se ciò non accade la canzone è destinata a non lasciare nulla. Meglio cestinarla. Per questo motivo preferisco canzoni la cui lavorazione sia breve, che in qualche modo si scrivano da sole, solo in quelle si conserva l’immediatezza dell’ispirazione o del sentire, l’attimo dell’emozione. Allargando il discorso ad altre esperienze artistiche, sono sempre stato convinto che le forme d’arte che richiedano lunghi tempi di realizzazione, perdano la loro spontaneità, il dono dell’ispirazione dell’attimo, dell’emozione, cedendo il passo alla tecnica e a successivi “ritocchi” che ne intaccano la natura originaria.
Fondamentalmente tu stai muovendo i primi passi nel mondo della musica indipendente. Come vivi questa fase? La vedi come una transizione, un trampolino di lancio per la sfera mainstream o pensi che le libertà artistiche siano salvaguardate solo dalle etichette piccole?
Vivo questa come una fase di passaggio, ma solo quando ho dei lampi di ottimismo. Negli altri casi vivo alla giornata. L’obiettivo non è il mainstream, non ne ho i “numeri” e non sono neanche convinto che mi piacerebbe. Mi accontenterei di essere qualcuno nella scena indipendente, di suonare tanto in giro, insomma, di poter vivere facendo musica e vendendo dischi. Sto esagerando? Forse sì. Credo che solo la scena indipendente garantisca la libertà necessaria ad essere spontanei, e probabilmente non tutta. Ai piani più alti è solo mestiere e “musicaficio”, strategie di marketing e studi di settore, apparire prima ancora di essere, produrre reddito per altri. Forse qualcuno si salva, Baustelle, ora Amor fou…ma salvi del tutto? E fino a quando?
I cantautori italiani contemporanei che più ti hanno colpito recentemente?
Non sono un amante del nuovo cantautorato italiano, Dente, Brunori SaS, ho gran rispetto ma è una questione puramente di gusto. Forse perché sono più deandreiano che battistiano e loro sono certamente più figli di Battisti che di De Andrè. Il paragone è legato solo ad un approccio alla scrittura, e se vuoi ai contenuti, differente. Apprezzo comunque chi si è fatto largo e ha raccolto consensi con un linguaggio diverso, personale, come Vasco Brondi, anche se non perfettamente in linea con i miei gusti. Non ascolto molto cantautorato italiano, sono più orientato oltre i confini, Anthony, DM Stith, Wovenhand, Larkin Grimm, come dicevo, ho amato molto Moltheni, Benvegnù, Marco Parente o il Capossela di Ovunque proteggi.
Suonare in Italia per un cantautore come te cosa vuol dire?
Suonare in Italia mi sembra l’unica cosa possibile. Non so se per fortuna o sventura sono totalmente italiano, nell’uso della lingua, innanzitutto, ma anche nelle armonie, nelle melodie, nelle atmosfere.
Dunque non mi pongo alternative possibili e mi immergo in tutte le difficoltà del caso uscendone vivo solo a tratti. E’ una dura fatica, si prendono un sacco di botte, rimangono i lividi, le possibilità di farsi largo sono poche, gli ostacoli tanti ma questo sporco lavoro qualcuno deve pur farlo! E speriamo di andare in pensione più tardi possibile.