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Bravi, belli, unici, difficili e terapeutici: intervista a Sydney Silotto (L’inferno di Orfeo)

Narra la leggenda che Orfeo, figlio di Apollo e della musa Calliope, avesse un canto talmente melodioso da incantare sirene e dei degli inferi. L’Orfeo odierno si presenta con il volto di quattro musicisti di Torino che ci hanno appena regalato il loro primo full lenght, Canzoni dalla voliera. Il sound de L’Inferno di Orfeo è eccletico, coinvolge e la voce di Sydney Silotto ammalia come l’arpa di colui che dà il nome alla band. Gli abbiamo posto qualche domanda per farci raccontare un po’ meglio questo progetto.

Raccontaci la genesi de L’inferno di Orfeo. Da dove venite? Perché avete scelto questo nome così evocativo?
In realtà il nome del progetto nasce prima della band. Fui letteralmente rapito dalla tragedia di Orfeo, dalla sua straordinaria bellezza e dall’effimera potenza del suo canto. Quindi, undici anni or sono, quando incontrai Carletto con la volontà di mettere in piedi un duo cantautoriale misi subito sul tavolo la “carta” del nome. A ben pensarci subito non fu nemmeno così ben accolto. Ma si parla di parecchi anni fa.

Canzoni dalla voliera, il vostro primo album ufficiale, arriva dopo più di dieci anni che suonate insieme. Perché avete scelto proprio questo momento per produrlo?
In realtà c’è già stato un tentativo di produrre un lavoro de L’Inferno precedente alla Voliera. Nel 2006 abbiamo inciso in presa diretta alla Suoneria di Settimo T.se (noto studio della zona) L’attesa. E nel 2008 un singolo (presente in versione ri-editata sempre nella Voliera), Notturno Isterico. Ma i mezzi erano sempre pochi ed esclusivamente nostri. Quando, dopo mesi di collaborazioni e ricerche, abbiamo trovato i personaggi giusti disposti a lavorare a piene mani al progetto siamo partiti con la pre-produzione. I personaggi giusti sono, sono stati e confido saranno, la Hertz Brigade Records, Eugenio Mazzetto, CasaLuce e Libellula Booking.

I testi de L’inferno di Orfeo parlano di vinti, di innamorati cronici, di personaggi delusi. Sono autobiografici o vi ispirate ad altro?
Oggi credo, sinceramente, sia abbastanza difficile trovare conferme o ineluttabile felicità se ci guardiamo intorno. Trentenni precari su tutti i fronti. Ed il resto vacilla, perennemente in bilico.

La voliera come metafora della vita che ci ingabbia in schemi prestabiliti tarpandoci le ali. C’è un modo per riuscire comunque a spiccare il volo?
Assolutamente sì. E’ la chiave dell’album. La quasi onnipresente volontà strafottente e ironia pungente che dettano legge anche nei brani più drammatici credo ne siano la conferma. Non so quanto si evinca così. Il “piangersi addosso” non è assolutamente il filo conduttore del lavoro.

A quale brano dell’album siete particolarmente affezionati?
A tutti. Non v’è una classifica emotiva o una corsia preferenziale. A seconda dei momenti preferiamo chi l’uno chi l’altro.

Il vostro sound è molto eclettico: passate dal progressive al jazz, dal rock al cantautorato con una puntatina anche nei suoni latino-americani. Quali sono gli ascolti che vi hanno influenzato maggiormente?
Assolutamente tutto. Dai cantautori degli anni 70 ai Marta Sui Tubi, dal trash metal degli Slayer al post-rock dei Karate. Onnivori tutti e quattro. E non ci priviamo di nulla.

Torino è un città che da qualche anno ci regala band di ottimo valore e dai generi più disparati: penso a Subsonica, NAMB, Africa Unite, Perturbazione. Secondo voi c’è un motivo per questa “concentrazione di talenti” o è una semplice casualità?
Provenendo comunque dalla provincia non saprei risponderti. Sicuramente da almeno cinque anni c’è una forte voglia di rilancio in Torino, anche nel sociale. La “concentrazione di talenti” credo ne sia lo specchio.

L’avvento di siti come Myspace, Facebook, Soundcloud dove chiunque può caricare i propri brani e farli ascoltare ha, in un certo senso, democratizzato la musica: in teoria, una band alle prime armi può avere la stessa visibilità di band più affermate e questo ha portato anche al pullulare di pubblicazioni discografiche non sempre di qualità. Pensate che il digitale sia un bene o un male per la discografia?
Un bene assoluto. L’Inferno non avrebbe ottenuto consensi o date in giro per lo stivale senza il mezzo digitale. La qualità o l’eccellenza di carattere di una band se deve uscire uscirà, ne sono convinto. Se nel mezzo delle proposte vi è pure qualche amenità troverà l’accoglienza che merita. Gli ascoltatori ed i consumatori di musica sono molto intelligenti. Il mainstream lasciamolo ai talent.

C’è una canzone che avreste voluto aver scritto e una che sarebbe meglio non fosse mai stata incisa?
Personalmente mi piacerebbe aver potuto comporre una gemma come Atlantide di De Gregori. Quelle che non avremmo mai voluto incidere, per fortuna, sono rimaste nel cassetto.

Chiudiamo con cinque buoni motivi per ascoltare L’Inferno di Orfeo.
Siamo bravi, siamo belli, siamo unici, siamo difficili e siamo terapeutici.

Rovescio (abili bambini al franticidio) – Preview

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