Avete mai visto una quaglia? LostHighways ne ha incontrate tre! Sono di Torino e suonano un qualcosa di indefinibile che si rifà ad un sound d’altri tempi catapultato nel terzo millennio. Questa descrizione non aiuta molto ma le loro parole, i due brani in streaming, il video di Marigot Bay con le spiegazioni del regista Dario Bovero forse vi aiuteranno a capirci qualcosa. Forse, ma secondo noi vale la pena di tentare!
(Green flamingo e One night stand sono in streaming autorizzato)
E’ uscito il 25 Marzo il vostro Bishops in tea shops, ma partiamo dal principio: chi sono i Jumpin’ Quails e perchè?
Jacopo: Attenzione, è chiaramente una domanda trabocchetto!
Sal e Diego: I Jumpin’ Quails sono più persone di quante sembrino (se fossimo degli intellettuali useremmo il sostantivo “collettivo”) accomunate da una caratteristica comune: we are not men, we are quails.
Nella vostra musica sono evidenti i riferimenti 60s ma non appaiono spudoratamente celebrativi, piuttosto sono “ri-creativi”. Bishops in tea shops sembra volerci dire che “il tempo non è andato” e pure oggi si può vivere la modernità con un piglio differente. Sbaglio?
Sal: No, non sbagli, anzi hai centrato in pieno il punto! Ti confesso che sono sempre contento di sentire questa critica (ultimamente è capitato spesso): vuol dire che abbiamo raggiunto il nostro scopo. E ti confesso anche che non sapevo che quello che ho in testa da tempo, si potesse esprimere così bene: “rivivere la modernità”.
Quali sono comunque i vostri riferimenti musicali passati ed odierni che in qualche modo hanno fatto sì che ora i Jumpin’ Quails suonino questo tipo di musica?
Sal: I miei riferimenti spaziano dai Kraftwerk e Natalino Otto, con questi due estremi in evidenza, direi.
Jacopo: Syd che suona Gainsbourg, i Kinks che suonano Mozart, I Byrds che rifanno De Andrè. Oltre ai suoni del Grillo Parlante quando chiedevo in aiuto una lettera in più.
C’è un po’ di Francia in voi, nelle vostre vite: se si potessero distinguere degli ingredienti, cosa quel paese vi ha offerto a differenza della nostra Italia?
Sal: Una cosa fondamentale: la nostra prima data. A Montpellier nel 2008 in un locale che si chiama Mojomatics. E un’altra cosa, questa davvero fondamentale: i camerini. Erano in un rialzato a cui si accedeva da una scala stretta. Di legno. La stanza era col tetto a spiovente e c’era un divano rosso, un frigorifero ed un lavandino. Il tabulè era buono e anche il bordeaux.
E visto l’attuale orgoglio nazionale che la vostra città, Torino, ostenta per le celebrazioni del 150enario della Repubblica, trovate qualcosa che invece si può godere solo in Italia e non all’estero, dal punto di vista sociale e poi anche musicale?
Sal: La pizza, davvero. Per il resto, posso dirti che la scena musicale italiana è veramente ricca e molto buona, tanto che sono molte le band italiane che suonano fuori dai confini nazionali e girano l’Europa.
Oltre che alla definizione di una personalità musicale, è interessante parlare anche dell’immagine alla quale i Jumpin’ Quails sembrano molto attenti. Era già parte di voi o è nata con la band? Come si è sviluppata?
Jac: è nata con la band… o almeno credo. Ho difficoltà a ricordare com’era la vita prima dei Jumpin’ Quails. Insomma, quando ce ne siamo accorti, era già troppo tardi.
Diego: Tutto nasce dall’entropia. Noi tre siamo persone molto diverse, se ragionassi da conformista non esiterei a definirci il trio più mal assortito che abbia mai visto. Ma c’è una cosa che ci accomuna: non riusciamo a prenderci troppo sul serio. Mai. Credo che grazie a questo punto di contatto sia nato tutto spontaneamente partendo dalla diversità. Usando parole difficili direi che senza accorgercene siamo arrivati ad un punto a metà strada fra tutto quello che siamo, e che a questo punto l’immagine che trasmettiamo non è un compromesso ma piuttosto una sintesi. Amen.
L’immagine di cui parliamo è pure molto ben espressa nel vostro video tratto dal brano Marigot Bay. Come è nata l’idea e a chi va il merito?
Diego: l’idea è mia ma è poi stato il nostro regista Dario Bovero a svilupparla in qualcosa di realizzabile. Un giorno ero in metropolitana a Roma, ero di fretta e stavo correndo sulle scale mobili per raggiungere Termini e prendere il treno per Torino. In quel momento nel mio lettore mp3 parte Marigot Bay e mi rendo conto che i miei piedi si stanno muovendo sulle scale mobili alla stessa velocità dei bpm della canzone. È così che ho pensato ad un video che inquadrasse solo piedi in movimento. Rigorosamente a 157 bpm.
Dario: Sì, infatti. Quando Diego mi ha comunicato l’idea di filmare esclusivamente gambe e piedi, io sono partito per la tangente. Volevo girare un video narrativo, e non solo fatto di estetica e ritmo.
Nel video c’è colore, c’è il ritmo della canzone, c’è il movimento dei corpi, ci sono scene facilmente intuibili: un divertente senso di ribellione che viene abbozzato con un piglio quasi pudico… vaneggio o c’è qualcosa di corretto in questa osservazione?
Dario: E’ vero, è una ribellione pudica. Sai, volevo che il video visivamente tratteggiasse bene la filosofia del gruppo. Così i riferimenti, anche di cattivo gusto, ci sono, ma non sono mai espliciti. Questo, non solo per evitare di cadere nel fin troppo facile meccanismo “dell’effettaccio”, di cui oggi la cultura televisiva è satura, ma anche perché in fondo è quello che accade anche nei testi delle canzoni della band: si lascia spazio all’immaginazione. Ed è sempre per rimanere il linea con il loro modo di scrivere che poi ho filtrato il concetto di ribellione con la lente dell’ironia. Il concept del video specula proprio su certi cliché del rock’n’roll: “vieni, diverti, esagera, vattene”. E’ una ribellione talmente standard da essere da supermercato, oltre che un modus operandi a cui nessuno crede più realmente. Spero.
Jac: Il video fa lo stesso gioco di tante nostre canzoni: lo spettatore/ascoltatore, se vuole, può avere un ruolo attivo, che invece non avrebbe con immagini e parole spiegate fino in fondo. Se invece non ha voglia, può anche succhiarsi la musica passivamente, è bella anche così, l’importante è che compri l’album.
l brano scelto per il video è molto orecchiabile, volutamente ballabile e, se vogliamo, estivo. Ma i Jumpin’ Quails non sono sono solo questo: in ogni brano c’è un incontro con dei personaggi surreali. Dove e come avete incrociato le loro strade?
Sal: Bishops in tea shops è il frutto di due anni di lavoro. Le prime prove di mix erano completamente diverse, più garage e lo-fi, insomma più “di genere”. Le persone che hanno messo mano a questo disco sono state tante quindi l’idea di fondo (e di conseguenza il suono) si è evoluta in continuazione finché ci siamo ritrovati in questo punto. Durante il tour promozionale del primo album portavamo già in giro i brani “nuovi”, che sono stati suonati così tante volte che hanno seguito tutte le evoluzioni sonore dei Jumpin’ Quails degli ultimi due anni; di ogni canzone sono stati prodotti almeno tre arrangiamenti.
A questo bisogna aggiungere che le inclinazioni personali emergono con una forza inusitata quando non c’è nessuna idea forte che prevalga o quando non c’è nessuno che tenga le redini. La visione di Jacopo del pop si è attorcigliata attorno alla mia, senza mai mischiarsi veramente, come l’olio fa con l’acqua, ed il risultato è stato questo immaginario libertino, bukowskiano, disincantato. Ciò però che non è mai cambiato e non credo cambierà mai è la regola aurea dei Jumpin’ Quails: scrivi delle storie, che abbiano un inizio ed una fine e che possibilmente parlino di qualcosa di stupido ma importantissimo, assurdo ma potenzialmente reale. Per noi è vietato prendersi sul serio con l’ausilio di testi pseudo-poetici che magari non vogliono dire un cazzo. Puoi fare il poeta solo se sei un poeta, e noi non lo siamo, ma abbiamo grande immaginazione, così quando visualizziamo una situazione, ne scriviamo una canzone. Il capitano che perde gli occhiali di Marigot Bay, il malcapitato che incontra George Stephenson nel suo giardino, la signora morte di Gorgeous Flesh , il cuore infranto che parla con un uomo senza denti di Goodbye Pussycat, gli animaletti colorati di Green Flamingo, la ragazza di buona famiglia che viene plagiata da un ragazzo del popolo di Talk to Your Father and lie e tutti gli altri personaggi del disco sono il risultato dell’emulsione della fantasia di un bambino prodigio con una fantasia Carrolliana, uno yuppie marxista e un puttaniere. Un ultimo commento sul luogo: credo che il luogo per eccellenza dei Jumpin’ Quails sia il nostro furgone, vuoi perché è itinerante, vuoi perché, quando si è in tour, inventarsi delle storie o parlare del nulla sono i nostri due passatempi preferiti quando dobbiamo vincere la noia di stare seduti per troppo tempo tra delle lamiere.
Ho sempre più l’impressione che la scena alternativa italiana si muova e sia viva grazie ad una serie di collegamenti, nodi e scambi in una rete. Non raccomandazioni, ma forse più di un network di collaborazioni e nomi che si diffondono. Come ci siete entrati “nella rete”?
Diego: (S)fortunatamente i Jumpin’Quails sono freelance e quindi non ci siamo immediatamente inseriti in nessun network, abbiamo piuttosto cercato di crearcelo. Faticosamente. Direi che la persona che ci ha permesso di essere più conosciuti in una fase iniziale è stato in nostro Sal, che ci ha spinto ad andare a suonare all’estero, organizzando da solo i tour di un gruppo che allora era di perfetti sconosciuti. L’altro nome che ha fortemente contribuito all’instaurarsi di nuovi collegamenti è ormai da qualche tempo il nostro amico e mentore Dario Bovero. Anche perché spinge noi a trovarne di nuovi.
Perchè preferite le quaglie ad aquile, fenicotteri, fagiani o tortore?
Sal: Perché le aquile sono troppo eleganti, maestose e politicizzate, i fenicotteri si inciampano, i fagiani si mangiano e le tortore… Hey, ma com’è fatta una tortora?
Diego: E comunque anche i fenicotteri ci stanno abbastanza simpatici, soprattutto se verdi. There’s a place, in you mind… (Green Flamingo)