Tentare una reductio ad unum di Roberto Dell’Era è pressoché impossibile.
Chi lo conosce solo come il carismatico bass player degli Afterhours resta attonito di fronte alla complessità prismatica della sua fisionomia artistica. A suo agio nei panni del rocker impetuoso e viscerale, come in quelli dello chansonnier charmant, si muove con la stessa disinvoltura anche nelle atmosfere pulsanti del beat e del brit-pop.
Dopo una lunga permanenza in Inghilterra, Dell’Era torna in Italia nel 2006 per iniziare il suo sodalizio musicale con Manuel Agnelli &Co e nel 2007 avvia la propria carriera da solista pubblicando la ballad in stile sixties Ami lei o ami me, alla quale fa seguito il singolo La meraviglia, riscuotendo con entrambi ottimi consensi da parte del pubblico e degli addetti ai lavori.
Ma sarà il suo primo album, Colonna Sonora Originale, la cui uscita è prevista per il prossimo settembre, il vero banco di prova per Dell’Era singer. Noi lo abbiamo incontrato al termine di un suo live e abbiamo scambiato con lui due chiacchiere.
Le tue molteplici collaborazioni con alcune delle realtà più interessanti della scena indie italiana (Afterhours, Dente, Lombroso, Il Genio, Calibro 35) ti rendono un artista capace di slittare con naturale equilibrio fra diversi generi musicali. Fra tutti gli stili del linguaggio sonoro che hai interpretato, qual è quello che senti maggiormente tuo, quello con il mood a te più congeniale?
Di sicuro quello che emergerà dal mio disco. Non posso negare che le mie passate esperienze inglesi mi abbiano trasmesso una linea vocale e un atteggiamento sonoro con un’attitudine molto ’60, eppure trovo la mia linea di scrittura, che proviene dalle cose con cui sono cresciuto, più influenzata da una certa musica anni ’50, incontrata grazie a mio fratello, che la suonava con il suo gruppo, e a una cricca di amici che ascoltava quel genere giorno e notte.
E’ in rete da qualche settimana Il motivo di Sima, singolo che anticipa il tuo primo album da solista: ci parli di questo pezzo, scritto a quattro mani con un tuo amico songwriter di Birmingham?
Il brano l’ho composto con Micky Greaney, uno scrittore di canzoni incredibile e pieno di talento, ma talmente ostico con se stesso e con il mondo intorno a sé da non esser riuscito a pubblicare un suo disco, arrivando persino a litigare con fior fiori di produttori che da 15 anni gli chiedevano un album. Davvero un personaggio anomalo, di quelli che non ce la fanno a raggiungere il successo non perché sprovvisti di un profilo artistico medio-alto, ma perché penalizzati da un carattere e da una personalità difficile e poco incline alla mediazione. Il motivo di Sima ricalca un pezzo di Micky, Out in the morning, al quale ho riscritto il testo in italiano, lasciando intatta la partitura musicale, e parla della relazione sentimentale di Greaney con una ragazza indiana, seguita in un viaggio in Thailandia.
E del tuo atteso primo disco puoi darci un’anticipazione?
Oltre a Il motivo di Sima, il disco include vari brani, tra i quali i due singoli già pubblicati Ami lei o ami me e La meraviglia, e vedrà la partecipazione di Cesare Basile, meraviglioso cantautore catanese con cui ho abitato per due anni, di Enrico Gabrielli e Rodrigo D’Erasmo, insomma tutti quegli artisti che fanno parte della cricca del mio giro. Il resto lascio volutamente che sia una sorpresa.
Il disco, che si intitolerà Colonna Sonora Originale, esce per MArteLabel. Tutti conoscono gli svantaggi che, volente o nolente, implica l’appartenere ad un’etichetta “minore”, ma quali sono, secondo te, i vantaggi di pubblicare con una casa discografica che non sia una major?
Il mio è stato sicuramente un salto nel vuoto, ma ho deciso di lavorare con i ragazzi di MArteLabel perché sono giovani, freschi, forti sul web e, aspetto non di poco conto, sono innamorati del disco. Quando lavori appassionandoti a qualcosa, di sicuro dai il massimo e loro, da questo punto di vista, sono senza dubbio fantastici. È meglio che andare con un’etichetta grossa, ma con poca voglia di lavorare e che magari ti lascia a piedi dopo l’uscita di due singoli, perché non girano e quindi non rendono. Negli ultimi tempi, poi, gran parte delle maggiori case discografiche italiane si sta occupando di un certo tipo di prodotti e mi riferisco a realtà da X-Factor o da Amici, mentre le etichette indipendenti si sono trovate di colpo ad avere una fetta di mercato abbastanza grande. Ormai si muovono su diversi livelli come le major, visto che il mercato indie si è diversificato, ma contrariamente ad esse ti assicurano il massimo impegno e tanto coinvolgimento nel supportare il progetto.
Con gli Afterhours hai portato a Sanremo un pezzo, Il Paese è reale, che messo in controluce è sembrato a molti un j’accuse nei confronti dello status quo politico e sociale dell’Italia. È noto, poi, il tuo impegno rivolto nei confronti di situazioni come quelle dell’Angelo Mai o del Teatro Valle a Roma. Alla luce di ciò che sta accadendo, e mi riferisco soprattutto ai tagli alla cultura operati dall’attuale governo, come vedi l’odierna situazione italiana?
Con l’Angelo Mai ho fatto spesso spettacoli d’avanguardia, tributi a registi ed eventi totalmente improvvisati e insieme abbiamo dato un contributo all’occupazione del Teatro Valle di Roma, chiuso non perché siano stati dimezzati o sottratti i fondi, ma perché ha visto la chiusura lo stesso Ente che ne curava la gestione. Queste sono certamente situazioni da seguire e a cui bisogna manifestare piena solidarietà, situazioni che aiutano anche a scatenare un po’ d’entusiasmo soprattutto nel nostro Paese, stranamente dissociato da ciò che sta accadendo nel resto d’Europa. Da noi si parla poco dei fermenti sociali che stanno scuotendo altri Stati, europei e non solo, e questo apparente disinteresse è certamente imputabile al silenzio di molti media che, laddove informano, lo fanno minimizzando la portata di certi focolai di contestazione. Ho vissuto ultimamente le elezioni forse più emozionanti della mia vita, quelle di Pisapia a Milano. S’è trattato, inutile negarlo, di un voto di protesta, perché non credo che l’Italia sia cambiata da un giorno all’altro, però sono spiragli che fanno ben sperare, che rianimano quell’entusiasmo sociale assopitosi da un po’ di anni a questa parte e affievoliscono quanto meno la disillusione con cui certe forme di governo esercitano il proprio controllo sui cittadini.
Ritornando alla musica: negli ultimi anni, molti artisti hanno rivisitato pezzi della tradizione musicale italiana, è il caso di Morgan, che ha reinciso un intero album di De Andrè, ma anche di Battiato, che ha pubblicato tre dischi della serie Fleurs. Secondo te, perché da parte di molti musicisti si guarda al passato e perché anche il tuo sguardo artistico è rivolto verso una parte del cantautorato anni ’60-’70 made in Italy?
Per quel che mi riguarda, l’inclinazione verso un certo clima musicale, come può essere stato quello degli anni ’60, la muove il fatto che si tratta di un periodo d’oro per la nostra musica, sia a livello di scrittura e di produzione, sia a livello di voci e di gestione del mondo della musica. C’è stato un momento in cui siamo stati molto al passo con i tempi, soprattutto tecnicamente, mentre ora purtroppo lo siamo meno. Trovo che l’attenzione per il proprio passato musicale sia una cosa molto normale altrove e quasi dimenticata in Italia: in Inghilterra, che è un Paese dove la musica ha permeato il tessuto sociale, come è avvenuto anche in America, ogni ragazzino che si chiude in casa e smanetta con il computer conosce venti pezzi dei Beatles, venti pezzi di Elvis, dieci pezzi dei Kinks, tre di Tim Buckley e tutti li conoscono perché fanno parte del proprio retaggio. In Italia non è così: è orribile dirlo, ma il nostro non è un Paese da rock and roll e probabilmente non lo è mai stato. Entri in una lavanderia a New York e ascolti Santana, magari anche da uno stereo tenuto a manetta, entri in un locale o in un bar italiano e non c’è musica. L’Italia, da un punto di vista musicale, è diventato un paese silenzioso.
Domanda surreale: se avessi la possibilità di suonare con un mostro sacro della musica mondiale, con chi vorresti farlo?
Più che avere la possibilità di suonare con qualcuno, avrei voluto essere a Londra nel ’65 per uscire la sera con gli amici e andare a sentire nei locali gli illustri “sconosciuti” dell’epoca: i Rolling Stones, gli Animals, quel tipo nero di Seattle mai sentito, tale Jimi Hendrix. O gli Spencer Davies Group, gli Small Faces, gli Zombies o il gruppo di quel tipo col nasone: gli Who. Non penso che allora ci fosse più talento di quanto ve ne sia oggi; penso, però, che i tempi portassero le persone a manifestare dei contenuti diversi da quelli odierni.
Per ogni artista è una resa dei conti emozionale il rapporto live con il suo pubblico. Cosa vuoi comunicare alla tua gente quando vesti i panni del singer e cosa, se mai ci fosse una differenza, quando vesti quelli del bass player?
Sono ovviamente due situazioni totalmente diverse. Suonare ed emozionarmi da matti al Traffic, quattro anni fa, con Patti Smith e gli Afterhours davanti a 35.000 persone non è come emozionarmi ad un mio concerto, magari davanti a pochi spettatori. Non la qualità, ma la quantità dell’emozione può essere uguale o superiore, perché lì ti metti in gioco con le tue parole, con le tue canzoni, solo tu, la tua chitarra e il tuo pubblico. Molto più facile suonare il basso con gli After che fare un concerto davanti a cinquanta persone.
Ci lasci con una promessa da cantautore?
I cantautori non devono far promesse. Devono restare liberi il più possibile e fare quello che hanno voglia di fare. Personalmente, cerco sempre di stare lontano da ogni dolore, perché non è quello che mi porta a trasformare l’emozione in musica, in arte. Se ho la mente libera e sono felice, trasformo anche le situazioni più difficili della vita in una canzone o in una storia.