Ci sono band che arrivano al pubblico in maniera diretta, con la forza del talento, con il fervore delle composizioni, con l’intensità dei testi, con la dote rarissima dell’insieme. Sì, parlo di insieme. E chiamo in causa una serie di aggettivi di alto livello: armonioso, coeso, raro, unico, suggestivo. Di alto livello perché parlo di un gruppo che fa canzoni, e averne a proprio riguardo non è da poco. Tutto qui.
Ci sono band che muovono i primi passi e attirano l’attenzione dei discografici senza lasciare ombra di dubbio. Accadde ai Fleet Foxes con quella navigata Sub Pop.
Se si pensa al punto geografico delle loro origini viene da sorridere: Seattle.
Specifico: viene da sorridere con un pizzico di sdegno ai seguaci post-litteram del grunge; viene da sorridere con il cuore gonfio di gioia a tutti quelli che il grunge l’hanno spogliato al tempo, conservando quella vena universale che rima con l’autenticità, pregio comune alla musica buona.
Dicevamo, Seattle. E poi l’ep del 2006 che era già il diamante grezzo del loro successo a venire. Un disco omonimo dopo due anni e la consacrazione. Dopo ancora tre anni Helplessness Blues, come vogliamo metterla? La conferma? Non esattamente. La conferma arriva dai live. Impressionanti, piacevolissimi.
I Fleet Foxes hanno toccato l’Italia per tre date nel corso di questo novembre: Roma (17), Bologna (19), Milano (20).
Roma ha accolto le volpi all’Atlantico, in una frizzante serata d’autunno.
Il palco si illumina presto, verso le 20.30 Alela Diane è già pronta a muovere i passi in una dimensione altra, di folk al femminile così sensato e credibile perché figlio proprio di una tradizione americana che non è rimasta “passato” ma che continua a rimanere viva e attuale, giovane e contemporanea. La cantautrice appare sicura, delicata, calda. Nei movimenti e nalla voce. Sei all’EUR o in qualche locale sperduto a valanghe di chilometri da qui? E’ questa la domanda che rimane addosso e che diventa più insistente durante l’esibizione dei Fleet Foxes.
Un blu denso e notturno accompagna il loro ingresso, felpato e silenzioso. Da quel momento è stata una curva sul tempo e sullo spazio, una sospensione onirica benefica. Ti aspettavi una magia, anche se forse era più forte la paura di una delusione. Invece, no. La magia c’è stata davvero. Hanno incantato gli orologi, hanno scardinato ogni sovrastuttura e preconcetto. Certo, sono figli diretti degli anni ’60-‘70, hanno nel sangue le lezioni di Bob Dylan, CSN&Y e quell’onda della West Coast. Ma il punto è che non hanno nulla di derivativo, perché è l’attitudine che li spinge lontano fino a renderli una delle band più interessanti e valide attualmente. Le archittetture testuali, l’armonia corale, gli intrecci tra le parti che sviluppano un’evoluzione sonica suggestiva, il visual alle loro spalle, i movimenti, la pacatezza e il suo contrario mettono in scena un immaginario da vette surreali, fatte di neve-stelle cadenti, inverni in cui ricordare e incontrarsi, notti da cieli in movimento.
Dove il folk corale intona favole dal profondo. Dove la nudità del suono passa per l’articolazione e l’intreccio. Dove la musica ha qualcosa di sublime e poco umano, di trascendente e mistico.
La prima metà del concerto si è sciolta tra qualche difficoltà tecnica e un distacco che non si può definire freddezza, ma solo ricerca della chiave di volta di una concentrazione mirata alla precisione. Nella seconda metà c’è stata un’impennata sia nella resa che nell’osmosi con il pubblico, caloroso e attentissimo. Un pubblico variegato, nutrito di giovani e figure avanti negli anni. Chi scrive ritiene questo un dettaglio non irrilevante, ma finalmente significativo.
Sublimi le intese tra Robin Pecknold e Skyler Skjelset, quest’ulitmo capace di dare convincenti sterzate rock in alcune parentesi godibilissime. Menzione speciale per Josh Tillman, cuore di puntualità e emotività la sua parte nel gruppo. Il suo stare alla batteria ha qualcosa di unico, che ha a che fare con lo stile! Morbido, avvolgente, impetuso, profondo, protagonista. Lui sembra il vero leader, guida il tempo con una sensualità del movimento che lo rende centro da cui le parti prendono luce, mentre il contributo corale innalza il colore così particolare dell’ugola di Pecknold.
Il pubblico esulta e sembra abbracciarli sullo splendore di Mykonos, White Winter Hymnal, He Doesn’t Know Why, Sim Sala Bim, Grown Ocean. Tanto per citare solo alcuni dei momenti di un concerto splendido.
Dov’eri durante quel concerto? Lì o a valanghe di chilometri lontano? Forse solo in quell’atrove di cui ha la chiave certa musica speciale. E quella dei Fleet Foxes lo è. (Foto di Marcello Linzalone)
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