Chi non conosce Nicola Manzan? Ormai le sue collaborazioni sono talmente tante che risulta difficile trovare un album dove non abbia messo le mani. Da qualche anno si sta anche dedicando ad un progetto solista, Bologna Violenta. I suoi album sono tra i più dissacranti usciti in Italia e con Il nuovissimo mondo (Bar La Muerte, 2010) è riuscito a ritagliarsi una discreta fetta di pubblico che lo segue fedele. Il 27 gennaio 2012 è arrivato Utopie e piccole soddisfazioni, terzo lavoro in studio dell’eclettico artista. Losthighways ha colto l’occasione per farsi raccontare un po’ di cose da Nicola.
Nelle precedenti direzioni c’era un forte riferimento al mondo del cinema (i film polizieschi per quanto riguarda il tuo esordio e i mondo-movies per Il nuovissimo mondo), caratteristica che manca in Utopie e piccole soddisfazioni. A cosa ti sei ispirato questa volta?
Ho tratto ispirazione dalla vita di tutti i giorni, dai disagi che viviamo tutti ogni giorno, nessuno escluso. Volevo fare un disco che si distaccasse dal mondo del cinema, volevo qualcosa che fosse più intimo e personale. Volevo che ci fossero meno metafore e più musica. Il cinema da sempre mi ispira in quello che faccio, ma mi sembrava da un lato scontato andare a riprendere questo tipo di suggestioni. Poi, appunto, mi interessava di più andare a scavare un po’ dentro me stesso. Se devo pensare alle ispirazioni mi viene da pensare più agli ascolti che ho fatto negli ultimi due anni, anzi negli ultimi mesi, in cui mi sono messo ad ascoltare tutti i vinili che ho, nessuno escluso, anche quelli che detesto (seguendo la regola dell’ordine alfabetico) in modo da andare a trovare in maniera casuale suggestioni, sonorità e generi musicali diversi tra loro. Questo penso che si percepisca nel disco, dove spesso si sente la puntina del giradischi che scende sul vinile prima del pezzo, giusto per riallacciarmi a questo tipo di ascolti, ma non sempre sono pezzi presi dai vinili; come al solito, ho cercato di creare una certa confusione nell’ascoltatore.
Ci vuoi raccontare come sono nate le collaborazioni che troviamo in Utopie e piccole soddisfazioni?
Nel disco ci sono parecchie collaborazioni, alcune nate per caso, altre sono invece delle conferme, per così dire. Penso ad esempio ad Angelo Maria Santisi, il violoncellista che collabora con me da anni in studio, ma che per la prima volta ha prestato la sua opera per Bologna Violenta. Ci sono poi degli ospiti per me speciali, perché per la prima volta ho messo due pezzi cantati nel disco. Il primo è Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids che ha cantato Valium Tavor Serenase e che ho pensato di coinvolgere perché ritengo sia uno dei frontman più in gamba in circolazione in questo momento. Un altro ospite per me di notevole spessore è J. Randall, cantante e mente degli Agoraphobic Nosebleed, band di Springfield (USA), capostipite del genere cyber-grind; in questo caso, abbiamo cominciato un annetto fa a sentirci, quando mi chiese di poter far uscire i miei album per la sua etichetta (la Grindcore Karaoke) e mentre registravo il disco ha espresso la volontà di poter partecipare in qualche modo alla realizzazione dello stesso; ovviamente ho colto la palla al balzo e gli ho fatto fare la voce di You’re enough, che mi sembrava il pezzo più adatto al suo cantato crust-grind. Poi ci sono Nunzia Tamburrano, la mia compagna e collaboratrice che recita in Remerda e Francesco Valente, batterista de Il Teatro Degli Orrori, che urla in Mi fai schifo. In questi casi penso sia chiaro che il coinvolgimento sia avvenuto in modo assolutamente molto naturale.
Trovo la cover di Valium Tavor Serenase dei CCCP davvero ben riuscita. Come mai hai scelto proprio questo brano da coverizzare?
Mi era stato chiesto di fare una cover dei CCCP per una compilation e questo è il primo pezzo che mi è venuto in mente. Sono molto legato al loro primo album, che è forse quello che conosco meglio, un po’ perché ci sento l’innocenza delle prime registrazioni, un po’ perché mi ricorda un periodo specifico della mia vita. Mi è sembrato da subito il brano più indicato per una mia rivisitazione, in quanto è un pezzo davvero punk, quindi ha delle sonorità che mi rimandano a quel modo di fare musica che era tipico della scena punk/hardcore italiana dei primi anni ottanta a cui io devo molto per la mia crescita stilistica e culturale. Pur essendo un gruppo parecchio atipico per la scena, c’è anche da dire che i loro primi lavori sono usciti per la Attack Punk di Bologna, quindi per me rappresenta un ulteriore omaggio alla città che tanto ha influito sulla mia vita.
Altra cosa importante, per me, è il testo, che va a toccare il tema della “normalità”, che è a me molto caro. Non a caso a metà canzone, nell’originale, c’era un pezzo di Romagna mia, che a mio avviso rappresentava gli ascolti “normali” di quel periodo; lo stesso pezzo nella mia versione è diventato una specie di canzone danzereccia molto truzza, tipico ascolto delle persone “normali” di oggi. Aimone poi l’ha cantata benissimo, a mio avviso, e ha dato quel tocco di aggressività (e di truzzaggine) che tanto mi sarebbe piaciuto sentire nella versione originale.
In Utopie e piccole soddisfazioni spiccano soprattutto gli archi, che contrastano con la violenza della chitarra. E’ come se Nicola Manzan abbia voluto rivendicare la sua origine classica…
Direi che hai centrato il punto. Per la prima volta ho cercato di mettere insieme le mie due anime, quella rock (anzi, sarebbe da dire grind) e quella classica. Dopo anni di “come fai a suonare il violino e poi fare tutto questo casino con la chitarra?”, quasi casualmente, mentre registravo Vorrei sposare un vecchio, ho scritto una parte che avrei dovuto suonare, come al solito, col piano elettrico, ma che invece ho pensato di suonare con violino, viola e violoncello, visto che il pezzo si prestava ad una visione più sinfonica. Diciamo che è stata una specie di illuminazione, perché non mi aspettavo che l’effetto potesse essere così devastante. Ho continuato quindi su questa linea, perfezionando il tiro, imparando a scrivere gli archi su un genere così “spinto”, arrivando addirittura a scrivere e registrare prima gli archi che le chitarre (questo su Le armi in fondo al mare, uno degli ultimi pezzi scritti e registrati).
Devo dire che ascolto moltissima musica classica, quindi, essendo anche diplomato in violino, mi viene spontaneo pensare alla scrittura della mia musica tramite gli archi, ma con Bologna Violenta avevo sempre cercato di lasciare fuori questo aspetto, come se il violino rappresentasse solo il mio lato più dolce, per così dire. Ora invece sento di aver fatto un lavoro molto completo, forse quello che davvero mi rappresenta di più in questo momento.
Il tuo nome compare negli album più disparati. C’è una collaborazione che, alla luce dei fatti, se ti riproponessero oggi rifiuteresti e una che non ti hanno ancora proposto ma ti piacerebbe realizzare?
Non mi viene in mente nessuna collaborazione che rifiuterei. Anche quelle più “inutili” alla fine si sono rivelate utili per la mia crescita e, in un modo o nell’altro, mi hanno portato ad essere quello che sono. Cerco sempre di imparare da ogni singola esperienza, cerco di dare il massimo anche se non mi piace il tipo di lavoro che devo fare (capita assai di rado, fortunatamente) per far sì che il mio apporto possa avvicinare il pezzo che sto registrando ai miei gusti. Mi viene in mente un lavoro che ho fatto molti anni fa per un cantautore qui delle mie zone di cui non ricordo il nome (una cosa davvero triste) e un turno che è stato a dir poco traumatico per una cantante di cui non faccio il nome, qualche anno fa, che ora di sicuro non rifarei, ma che in entrambi i casi mi hanno insegnato così tanto che penso siano quasi imprescindibili per essere quello che sono.
Una collaborazione che mi piacerebbe realizzare? Ce ne sono davvero tantissime… mi piacerebbe lavorare con così tanti gruppi che non so neanche da chi partire… diciamo che mi piacerebbe lavorare con dei personaggi tipo Mike Patton o Richard Hawley, che mi sembra abbiano tantissimo da dare e con cui potrei lavorare molto bene. Ma finché non succederà non saprò mai se è vero (e ovviamente da questo si capisce che sono un grande sognatore).
Il tour che ha seguito l’uscita de Il nuovissimo mondo ti ha portato in giro per tutta Italia e hai avuto anche la possibilità di fare qualche data in Europa. Che differenza di approccio hai trovato tra il pubblico italiano e quello estero?
Guarda, ci sarebbero da fare tante considerazioni a riguardo anche della sola Italia, perché un pubblico come quello milanese, spesso così abituato a vederne di tutti i colori, è molto diverso da quello trevigiano (giusto per rimanere sulla stessa latitudine). All’estero ho avuto l’impressione che siano molto più preparati nell’aspettarsi qualcosa di particolare o strano, anche se alla fine dei miei concerti è venuta sempre molta gente a dirmi che quello che avevo fatto era qualcosa di assurdo e che non si aspettavano di certo. Però ho l’impressione che il pubblico sia più ricettivo, che abbia voglia di sentire qualcosa di nuovo. Come noi subiamo il fascino per l’esotico, così è per loro. Quindi anche se non capiscono le veloci frasi tra i miei pezzi, in ogni caso sentono che in me c’è qualcosa di diverso da loro, qualcosa che li affascina e che cercano di cogliere nonostante le differenze linguistiche. Ho l’impressione che qui in Italia questo tipo di fascinazione spesso tolga anche la capacità di giudizio nelle persone, facendo di noi un pubblico in gran parte esterofilo e poco propenso all’ascolto critico.
Quali sono le utopie e quali invece le piccole (o grandi) soddisfazioni che Nicola Manzan si è tolto nell’ultimo periodo?
Le utopie sono sempre le stesse: la pace nel mondo, il governo dei popoli in mano ai giusti, un trionfo della ragione sulle superstizioni, il quieto vivere, quello che, in definitiva, io chiamo Bervismo.
Le piccole soddisfazioni sono quelle che rendono la nostra vita migliore, sono quelle che se viste dal verso giusto diventano grandi e ci rendono felici. Una delle più grandi soddisfazioni è vedere che sono riuscito a far uscire un disco nel 2012, in piena crisi del mercato discografico e far sì che questo disco arrivi nei negozi (ad un prezzo contenuto, 10€, per capirci, che è il minimo per non rimetterci), nonostante dentro ci sia della musica estrema (mi piace pensarla avanguardistica) e nonostante dietro non ci siano multinazionali o chissà quali ingenti investimenti di capitali, ma tanta passione e tanta dedizione. L’utopia sarebbe quella di essere primo in classifica e vendere milioni di copie, ma mi domando anche: a che prezzo? La mia vita sarebbe stravolta, il mondo stesso sarebbe stravolto se un disco come questo fosse in classifica, parliamoci chiaro! Invece sono felice così, perché nonostante tutto io e la mia compagna lavoriamo a tempo pieno sul progetto e riusciamo a sopravvivere con una certa dignità, senza farci mancare niente, conducendo una vita magari molto sobria, ma essendo molto felici perché la nostra passione ci dà il pane ogni giorno.
Questa è la più grande soddisfazione che un progetto così estremo come Bologna Violenta potesse darmi.