Incontriamo i Farmer Sea, che con il loro ultimo album A safe place hanno davvero positivamente colpito ed emozionato scegliendo di raccontare con la musica quella parte più emotiva, profonda e intima che ciascuno di noi possiede, ma che difficilmente trova espressione. La band torinese racconta di un viaggio, dove sono i sentimenti a guidare verso un luogo sicuro, tra luci e paure, mescolando melodie light pop e atmosfere lo-fi. (Si ringraziano Andrea per la cura dei dettagli e gli approfondimenti, Carmen Riccato per la preziosa collaborazione, Silvia per aver reso possibile questo incontro; foto di Silvia Delia Simonetti)
Come e quando nascono i Farmer Sea?
I Farmer Sea nascono nella primavera del 2004, in modo piuttosto classico, alcuni di noi hanno messo annunci su Internet e/o in sala prove. Ci sono stati vari passaggi e avvicendamenti di formazione fino a quando non ci siamo trovati noi quattro. Abbiamo iniziato da subito come band promotrice di un proprio progetto originale. Io avevo già cantato in altri gruppi e in inglese, così siamo partiti come band post-rock, che oltre ad essere molto in voga al contempo cominciava a puzzare di cadavere. Dal nostro primo concerto di aprile 2004 fino a novembre dello stesso anno abbiamo avuto in scaletta quattro pezzi originali e Little Aritmetics dei Deus, rimasti nelle influenze.
Quale idea o immagine ha ispirato la scelta del nome del gruppo?
Il nome è un gioco di parole ispirato ad un evento, un misunderstanding, capitato al nostro chitarrista a Londra. Doveva partecipare ad una festa in un locale che si chiama Pharmacy, posto a cui lui non è mai arrivato perché aveva capito di dover cercare un posto chiamato Farmer Sea. Da qui la scelta di dare questo nome che in italiano risulta alquanto intraducibile.
Ascoltando entrambi gli album è percettibile una forte evoluzione/maturazione sia lirica che musicale. Quale o quali sono stati gli eventi significativi di tale crescita artistica?
E’ bello che si percepisca il cambiamento. Il primo disco è suonato semplicemente, con due chitarre, basso batteria. Per il secondo lavoro abbiamo voluto sperimentare, e l’evoluzione è certamente partita da questa precisa volontà di cambiare. Prova ne è il fatto che se Low fidelity comprende testi che sono stati scritti tra il 2004 e il 2009, A safe place ha avuto una gestazione molto più breve avendo scritto tutti i pezzi tra fine 2009 e tutto il 2010.
Osservando attentamente il packaging dell’ultimo disco si incontrano suggestivi disegni a matita, le cui didascalie sono versi di canzoni. Our safe place is here rafforza le lampadine. Qual è il vostro “safe place”?
I disegni sono di Gianni, il batterista. Abbiamo deciso di associare, abbastanza liberamente, i versi ai disegni. Non saprei dire qual è il nostro safe place, sicuramente il disco rimanda ad un punto di non ritorno, infatti proprio la volontà di far uscire questo disco a tutti i costi, con le nostre forze, è in qualche modo il risultato materiale di un obbiettivo raggiunto.
Mi parli dell’immagine di copertina?
La foto della copertina viene da un contatto di Flickr. E’ stata scelta dal batterista, certamente richiama l’atmosfera che percorre tutto il disco. Il lago può essere visto come un luogo/una parte oscura da cui si riesce ad uscire, o anche un frame dopo un momento di divertimento.
Mi racconti come è nata e cosa racconta Small revolutions?
Musicalmente c’era la volontà di ritrovare le atmosfere della Motown Records di Detroit . Il titolo è stata la prima cosa certa. Ciascuno di noi stava vivendo momenti che avrebbero comunque mutato gli equilibri del gruppo, fino a mettere in dubbio la possibilità di portare avanti il progetto musicale stesso (un evento su tutti il trasferimento del batterista a Roma e la scelta di non lasciare il gruppo nonostante le inevitabili difficoltà logistiche). Cambiamenti importanti, piccole rivoluzioni, che non hanno spostano l’asse della band.
Spesso i testi delle canzoni sono introspettivi e intimisti. La musica è per te/voi lo strumento per raccontare il lato più profondo, emotivo, segreto?
Sono io l’autore dei testi. Chiedo molto spesso supporto per cercare i titoli, che trovo molto difficile da scovare. Molto spesso sul palco mi ritrovo a pensare all’evento che mi ha fatto scrivere il testo, più di quanto pensi alla qualità tecnica del suono o della performance, perché è tutto lì il piacere del mio fare musica.
A safe place mi è apparso come una sorta di diario di chi scrive e canta riflessioni su se stesso e sull’amore, sull’essere parte di una coppia…
I testi sono certamente rivolti a quel tipo di immaginario. Lo special e i cori di The fear in qualche modo aprono alla sfera delle emozioni. Scrivo quello che sento, e questo è più forte della libertà di scrivere quello che si vuole (in questo senso To the sun è forse l’unica canzone veramente impersonale, una sorta di collage), a Summer always come too late for us non sono riuscito ad aggiungere altri versi e la parte musicale è rimasta fondamentale… Scrivere di ciò che si sente la ritengo una fortuna, non una libertà.
Uno dei vostri punti di forza, soprattutto nel secondo lavoro, è la varietà degli arrangiamenti, dal pop puro,all’elettric pop, per arrivare al lo-fi delle tracce di chiusura. Come ci riuscite?
All’inizio siamo stati definiti lo-fi, ma è per lo più un’etichetta esterna dataci dopo l’uscita del primo disco. Le chitarre occupano il middle del disco, ma sono state registrate separate, abbiamo lavorato per inserire i cori, parti di piano, io mi sono divertito con i rumori (ho suonato la chitarra con l’archetto in Small Revolutions) . C’è la volontà di spolverare il Motown ma non è quasi mai riconosciuto.
Quali sono le vostre principali influenze?
Nel comunicato stampa abbiamo dato come linee guida Arcade fire, Wilco, R.E.M. ma in realtà c’è anche il Motown. Cosimo (il bassista) preferisce il sound inglese, io quello americano ma anche M.Y.A., Pavement, Yo la tiengo. Credo che siamo riusciti a non sembrare la copia di qualcuno, avendo un ventaglio abbastanza ampio di stimoli.
Nei contesti live perché The Fear compare per ultima? Personalmente la trovo molto originale e ricercata. Come è nato questo brano?
The fear è il primo bis in scaletta per necessità tecniche, essendo piuttosto impegnativa localmente.
Pensa all’uso dell’organo con la voce in riverbero. Difficilmente un pezzo nasce nella sua versione definitiva, dopo la stesura del testo c’è sempre un momento di confronto con gli altri componenti per la decisione finale.