Mercoledì 7 marzo 2012, Milano. Sbatte sui volti, come passi sull’asfalto, la coda di un inverno egoista e duro. Dietro agli occhi graffia un altezzoso presupposto di primavera. A stemperare tutto vengono i sorrisi, uno ad uno. Sorrisi solidi, generosi, furtivi, aperti, nervosi, soddisfatti. Ogni urgenza, stasera, ha il proprio sorriso. L’unico a mancare, così a me pare, è il sorriso di circostanza. Una risata amara beve la sua birra in un angolo: la senti trasalire, mentre ingoia un morso alla volta la fame che si è portata da casa. La Salumeria della Musica ti offre la sua penombra come un’attesa. Ti siedi e hai la sensazione di essere seduto dalla parte sbagliata, ma almeno per questa sera, grazie al cielo, va bene così. Lentamente, un pezzo alla volta, questa sensazione si traduce in consapevolezza e mentre le note incedono nel loro passo corposo, un pezzo alla volta, ti scopri ad approfittare della prospettiva che si gode da qui, seduti dalla parte del torto. La merce, La tua canzone, La fettina di m. (da La Canzone di Nanda, 2009), Un’ossessione, Virus A, Non canto (Estra, 1995): Giulio Casale canta con la voce, una voce straordinaria, con le mani, mani intonate e lucide, con il corpo, il suo corpo nudo nonostante la buona educazione degli abiti. La band gli cresce attorno, accentuando i colori primari dei pezzi, giocando sulle sfumature in virtù della forza del bianco e del nero: un passo in avanti rispetto al rock nudo e crudo, le articolazioni del pentagramma intinte di classe, di fughe, fughe ritmiche, elettriche, melodiche, mai concettuali, piuttosto cardiache; un passo in avanti e con buona memoria, con il teatro che ha insegnato e la vita che continua a mordere, sempre. La mistificazione, Apritemi, pezzo di una bellezza destabilizzante, Fine, La febbre partorita dall’eleganza di So che non so (In fondo al blu, 2005), The mercy seat (Nick Cave), Personaggio Comune, La mia realtà: succede qualcosa di ipnotico, anche l’incepparsi di una chitarra è in qualche modo poesia, la poesia delle cose vere, quelle che non funzionano mai a meraviglia, ma vale la pena crederci fino in fondo. La compostezza della sala, a tratti, pare fuori luogo, poi ti rendi conto che va bene così: ci vuole del tempo, spesso, per capire come riuscire ad amare pienamente quello che hai di fronte. Le canzoni hanno vinto sul tempo: lo hanno indossato, ricucito, bevuto, e tu hai vissuto di loro, a dispetto dei minuti. L’urgenza che dal palco si diffonde fra il pubblico è un’urgenza sana: quella di dover dire, di doverlo fare a dispetto della misura. Non c’è bon ton nei dialoghi fra il cantautore Casale e il volto dell’orizzonte cui punta il petto e il desiderio: c’è passione e cultura e umanità, l’umanità spudorata dei nati belli cui tocca il giogo di doversi sempre e per forza spiegare perché l’apparenza la smetta di ingannare. Gli attimi in cui Giovanni Ferrario, (“mia guida morale”, così lo apostrofa Giulio durante la presentazione della band) chiama, con un gioco del viso, gli attacchi di Lorenzo Corti e Pier Ballarin mette il punto sull’empatia che gioca fra i talenti in gioco questa sera. Nicola “Accio” Ghedin è un muscolo necessario di questo corpo sonoro. Il rito dei bis si consuma quasi con violenza, con la giacca delle buoni occasioni posata sulla sedia e il sudore lasciato a dire la sua: Risveglio (Estra, 1997), Cattolico (Estra, 1996) e Magic Shop (F. Battiato, 1979) non mettono un punto, ma aprono una parentesi, la parentesi graffa del piacere, il piacere di fare della musica l’estensione sacra del vero che possiamo ancora essere.
Giovedì 8 marzo 2012, Milano. L’una di questo mattino ha un suo sapore. Tenerlo a memoria altera il peso specifico di tanta solitudine. Grazie. (Lost Gallery)
La redazione ringrazia Claudio Del Monte e la Novunque per la gentilezza e la disponibilità