I Calibro 35 sono una di quelle band che si stanno ritagliando un discreto pubblico, sia in Italia che all’estero. Hanno riscoperto un genere, quello delle colonne sonore anni ’70 a metà tra funk e jazz, e l’hanno reso loro reinventandolo e svecchiandolo. Il 7 febbraio 2012 è uscito Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, terzo lavoro in studio, ne abbiamo approfittato per porre qualche domanda a Tommaso Colliva, colui che sta alla “regia” della band.
Per le registrazioni di Ogni Riferimento a Persone Esistenti o a Fatti Realmente Accaduti è Puramente Casuale vi siete spostati a New York. Ci volete raccontare questa esperienza e il perché di questa scelta?
Registrare a New York è stato un modo per toglierci delle certezze. Cambiare le carte in tavola rispetto ai dischi precedenti era necessario per stimolarci a fare qualcosa di diverso ed essere a migliaia di chilometri dalla Bovisa ha sicuramente avuto questo effetto. Tra l’altro, avendo pochi giorni per registrare, essere lontani anche in termini di fuso orario da tutto ciò che rappresenta la quotidianità aiuta a focalizzarsi molto meglio.
Nel vostro nuovo album, pur permanendo un forte riferimento ai polizieschi anni ’70, c’è una sorta di allargamento dei confini, pensiamo al brano New Dehli Deli e alle sue atmosfere che ricordano l’India o a brani un po’ più rockeggianti come Massacro all’alba, come se voleste sottolineare, se mai ce ne fosse bisogno, che non siete solo bravi a fare cover, ma sapete anche metterci del vostro. Sbaglio se ci leggo questo?
La “questione cover” ha ovviamente accompagnato i Calibro fin dagli esordi e personalmente l’ho sempre trovata un po’ senza senso. In tutta la musica strumentale è pratica comune eseguire brani di altri; pensa al jazz o alla classica. Non credo ci sia nessuno che abbia sminuito il valore di John Coltrane perché My Funny Valentine era nella colonna sonora di Tutti Insieme Spassionatamente. La differenza principale non è stata tanto il fare o no cose di altri (già più di metà del secondo disco erano pezzi originali), ma entrare in studio senza avere pezzi già scritti è stato l’elemento che ha probabilmente generato le differenze in termini di suono e scrittura che, fortunatamente, ci sono in questo disco. Il disco, infatti, non è stato solo “registrato” in cinque giorni ma anche scritto e concepito al 90% durante quel periodo.
In tre brani del vostro disco (Uh Ah Brr, Il Pacco, La banda del B.B.Q.) sono presenti delle parti “cantate”. Dobbiamo aspettarci nel futuro un album con vere e proprie canzoni?
Era da tanto che volevamo rispolverare un certo tipo di cantato tipico delle colonne sonore sia Italiane (pensa a Piero Piccioni) che estere (nel disco c’è un omaggio neanche troppo velato a Black Belt Jones di Dennis Coffey). Questo tipo di cori erano molto strumentali, sostituivano parti che potevano essere fatte da una sezione fiati il più delle volte e aggiungevano un timbro diverso. Per il cantato con un testo c’è tempo, ma non escludo assolutamente che avverrà. Magari ci vediamo a Sanremo tra un anno!
Il fatto di aver avuto molti premi e riconoscimenti, tra i quali ricordiamo il Pimi al Mei di Faenza per il miglior tour, e premiati al Keepon come miglior band 2010, per voi è uno stimolo a fare meglio?
C’è un po’ di diffidenza in Italia per premi e riconoscimenti. A volte giustificata, a volte meno. In generale bisogna, secondo me, prenderli un po’ più per quello che sono: un certo numero di persone pensa che tu abbia fatto bene una cosa. E’ gratificante sentirselo dire e fa piacere riceverli, molto. E fa molto piacere (e bene alla scena musicale) che ci siano persone che si preoccupano di organizzare questi eventi che in ogni modo danno visibilità ad un certo tipo di musica che altrimenti rischia di rimanere confinata tra le mura dei club che ospitano un certo tipo di concerti e in una cerchia limitata di persone.
Ai vostri live è presente un pubblico eterogeneo come fascia d’età. Quale pensate sia il punto di forza dei Calibro 35, quello che unisce più generazioni?
Non so quale sia il punto di forza, ma sicuramente c’è molta più gente rispetto a quello che si pensa a cui piace ascoltare musica e divertirsi e credo che sia molto semplice. Troppo spesso si teorizza sulle strategie per il successo per poi scoprire che fare le cose per bene, con il cuore e la grinta necessaria ti porta ad arrivare a un pubblico più ampio di quello che ti potresti aspettare.
Avete più volte realizzato live che uniscono la musica a proiezioni cinematografiche. Ci volete raccontare queste esperienze? Come nascono? Che criteri usate nella scelta dei video da musicare?
Abbiamo sperimentato con musica e immagini in tre modi diversi e li abbiamo trovati tutti molto stimolanti anche se diversi. Abbiamo fatto alcuni concerti in cui le musiche “solite” dei Calibro erano accompagnate da un montaggio in tempo reale di film di genere, capovolgendo interamente il concetto di colonna sonora (non erano più le musiche che seguivano le immagini, ma viceversa). Per il festival MiTo invece abbiamo musicato il primo gangster movie della storia, un film muto del 1928 e l’approccio è stato ovviamente molto diverso. Abbiamo deciso di non prepararci nulla. Abbiamo studiato il film e ci siamo preparati solo sul copione cinematografico per poi lasciare spazio all’improvvisazione totale durante lo show. Per lo spettacolo Milano Odia abbiamo poi affrontato la cosa in modo ancora diverso. Volevamo uscire dagli stereotipi della sonorizzazione classica e ampliare il tipo d’intrattenimento. Per questo c’è stato un enorme lavoro di preparazione che ha previsto il rimontaggio dell’intero audio del film in modo da estrapolarne solo i dialoghi lasciando spazio alla musica nei moment appropriati della pellicola. Abbiamo cercato di essere molto fedeli all’idea originale del regista, ma ci siamo anche permessi qualche libertà. Il risultato finale ci ha soddisfatto in pieno.