Una giovane band vive l’emozione di un viaggio in USA a fianco della band numero uno del rock alternativo italiano. L’esperienza di registrare brani in studi mitici degli USA. Le istantanee emozionali, respirate nell’eseguire una cover storica come Dolphins con la band che seguivi da una vita. La magica scoperta di un’affinità elettiva dettata dall’istinto e dall’amore comune per il rock sincero e puro. Questo ed altro in un’intervista-diario ai Majakovich, band che ha partecipato alle registrazioni di Meet Some Freaks On Route 66 (in allegato al numero 74 di XL) degli Afterhours.
Iniziamo a parlare di questo Jack Daniel’s On Tour con gli Afterhours. Focalizziamo prima di tutto sul viaggio negli USA. Quali sono le istantanee che vi sono rimaste impresse nella memoria?
Dunque la prima cosa che mi viene in mente ri-pensando a tutto quel popò di roba che abbiamo vissuto è indubbiamente il paesaggio, il suo variare quotidiano (per forza di cose… in 17 giorni abbiamo fatto quasi 10mila chilometri!). La luce delle cose, molto differente rispetto al nostro continente. Il resto è stato tutto troppo affascinante, entusiasmante, spasmodico e soprattutto differente da qualunque cosa ci potessimo minimamente immaginare nei giorni precedenti alla partenza. La cosa migliore che ci è rimasta è il rapporto umano ed artistico che s’è venuto a creare con tutta la crew ed in particolar modo con gli After. Persone squisite, da cui apprendere, anche solo da un semplice movimento.
Come è stata l’esperienza di suonare in quei particolari studi americani?
Una figata estrema. Posti bellissimi soprattutto. Poi vedere come lavorano è molto affascinante. Ho comunque l’idea che dalle nostre zone (l’Italia in particolar modo) si lavori anche meglio per certi versi, soprattutto sulle riprese dei singoli strumenti, però effettivamente eravamo in posti incantevoli (tipo il Church studio a Tulsa) con macchinari/strumentazione/tecnici di assoluto livello, quindi. Entrare all’electrical audio di Steve Albini e Greg Norman a Chicago è stato emozionante. Comunque sia, davvero, ogni studio ci ha lasciato dentro cose diverse e molto belle. Sia come crescita “professionale” che come crescita personale.
Potete parlarci un po’ di questa cover di Dolphins? Come è nata l’idea?
L’idea nasce a causa del contest del Jack On Tour (che poi è quello che ci ha permesso di vivere questo “spettacolo”), ossia all’interno del regolamento di questo “concorso” c’era l’esigenza di proporre, oltre due propri brani, anche il riarrangiamento di una cover tra una ventina di pezzi selezionati ACCURATAMENTE dagli After in precedenza… c’era roba di Motorhead, Pixies, i Canned Heath etc… noi per gusti personali abbiamo scelto il pezzo di Fred Neil nella versione riproposta da Tim Buckley. Per quanto riguarda la cosa che magari ai più interessa, ossia, il fatto che sia stato deciso poi di registrarla in un’inedita formazione majafterhours, possiamo dire che è stata una situazione assolutamente non pianificata. Tutto deciso uno o due giorni prima. E poi non sapremmo mai descrivere l’empatia che s’è venuta a creare: sembrava di esser una band unica che suonava da anni ogni giorno insieme, considera che in tutto saremmo arrivati ad un paio di take… quindi – per usare un termine caro al mondo del cinema – quasi un: “buona la prima!”. Provate ad immaginare: sei in uno studio megagalattico dove hanno registrato mostri sacri del metal (!) mondiale con la band che maggiormente hai amato nella tua adolescenza da sbarbatello musicista sfigato e ci incidi un pezzo insieme… cose dell’altro mondo!
Come è stato vivere questo tour con gli Afterhours? E soprattutto suonare in pezzi come Pelle e La vedova bianca?
Qualche tempo fa abbiamo scritto questo testo, che ti riporto, per provare a spiegare un po’ cos’è stato, almeno l’inizio: ” Fare questo viaggio, farlo accanto agli Afterhours ha un non so che di attuale. Quell’attualità che ci portiamo dentro dai tempi di Lasciami leccare l’adrenalina e dei cartoni delle uova (che ancora usiamo). Ma a tutto questo è meglio non pensarci, ormai siamo a Chicago, ci siamo dentro. Siamo dentro una miriade di vette mistiche manco fossimo in Nepal. Grattacieli in ogni dove e… noi si viene dalla campagna e anche se siamo dei giramondo… ci si rimane. C’è un locale, IL locale, chiamato Green Mill. Un posto in cui se ci vai, becchi ancora Al Capone seduto su una poltrona di pelle molto probabilmente umana e luci proiettate attraverso plafoniere che fanno paura per quanto sono grosse. Un posto strano dove fanno Slam Poetry. Ecco, lì abbiamo incontrato anche gli Afterhours.In una veste piuttosto insolita questi ti salgono su di un palco di molto a modo, uno di quei palchi in mezzo alla gente dove quasi ci si tocca, mettendo in scena un qualcosa di micidiale. Manuel legge un pezzo del suo Il meraviglioso tubetto, Xabier fa suoni che solo lui sa fare e Rodrigo al violino, accompagnati da un losco figuro poi rivelatosi un gran batterista. Noi di stucco, capiamo all’ istante che la strada da fare per arrivare a Los Angeles non è poi così tanta… se si inizia così.”
E’ stato come andare in gita in quinto superiore, eravamo a metà tra l’età adulta e l’età così chiamiamola “cazzonica”. La sola e fondamentale differenza è che quando eri il quinto superiore stentavi a capire quello che facevi e invece ora ci butti quel neurone in più che hai conservato. Tour/viaggio/esperienza fantastica. Loro sono delle gran persone, umili quanto non ti aspetti, geniali più di quello che credi. E’ stata una scuola sotto ogni punto di vista. Con gli occhi abbiamo rubato anche l’aria e appunto suonare in pezzi come Pelle e La vedova bianca son stati quei momenti in cui abbiamo tirato fuori di nuovo i grembiuli e il quaderno degli appunti. Nonostante la situazione al limite perchè i tempi (televisivi) imponevano velocità ed efficienza, che solitamente non fanno all’amore con la musica, abbiamo fatto bene il giusto. Perchè quando suoni in pezzi come quelli, soprattutto Pelle con cui sei cresciuto e che ha segnato la storia musicale di quest’ Italietta, non è proprio il caso di fare il “troppo”, ma proprio no.
Se doveste recensire in poche parole il disco Meet Some Freaks On Route 66?
Generalmente non leggiamo recensioni, quindi evitiamo a priori di farle. Soprattutto su cose dove c’è anche il nostro zampino. Ci sono cose secondo noi belle e altre meno, ma comunque si tratta sempre di musica, le chiacchiere sono a zero, forse meno. L’elemento caratterizzante di questo disco è senz’altro la tensione, l’imperfezione, l’intensità di una live session e va preso come tale.
Cosa dobbiamo aspettarci da voi nel futuro?
Ora è uscito un remix di If I could take a light, fatto dai Low Frequency Club. Poi, dopo una pausa necessaria per riprenderci un po’ le nostre esistenze dopo un anno e mezzo di tour tra Italia, Europa e questi 20 giorni in USA, stiamo cominciando a scrivere i pezzi per il prossimo disco e da Giugno saremo di nuovo in giro per l’Italia a suonare, cosa che faremo senza dubbio per tutta l’estate. Fatto ciò, tranne in qualche sporadico caso, credo che ci fermeremo in maniera definitiva e cominceremo a fare seriamente (ossia provare, provare, provare e registrare) il disco nuovo.