Non sempre il tempo corre vorace. Talvolta lo fermi. Lo guardi in faccia e decidi tu come farlo scorrere. Con lentezza. Con la bellezza intorno, di una città che si risveglia in una primavera prepotente, del mare ritmico di vento, delle parole che si fanno occasione di confronto e riflessione. E’ stato così durante l’intervista a Giorgio Prette e Manuel Agnelli. Il presente di Padania, il nuovo disco uscito il 17 aprile secondo la formula della totale autoproduzione, il passato rivisto come un incastro di anelli d’evoluzione, la modernità declinata in un rock dalla cifra stilistica così personale da rimanere sempre unico e inimitabile nel cambiamento, il coraggio della propria verità, l’onestà verso se stessi a rischio dell’impopolarità, il peso specifico delle parole e la loro forza emotiva, la bellezza come monito in ogni scelta ad un certo punto della vita. La musica non ama le etichette di genere, e quella degli Afterhours più che mai. E’ alchemica, profonda come gli oceani che non puoi conoscere del tutto se non li esplori dalla superficie fino al fondo del fondo. C’è della saggezza in quest’intervista, c’è quella sensibilità propria dei puri che non temono se stessi. (In collaborazione con Vladimiro Vacca; foto 1-3 di Ilaria Magliocchetti Lombi, foto 2 di Serena Mastroserio; si ringrazia Roberta Accettulli – Management)
Padania è un titolo provocatorio. Mette le mani nella carne cruda di una tematica politica ma per inquadrarla in una visione più ampia fino a spostare l’attenzione sulla dimensione umana e sui suoi vuoti in questi nostri anni di decadenza, giusto?
Manuel: Sì. Però non è solo così. Padania è un titolo non solo provocatorio ma anche grottesco, da un certo punto di vista. Volevamo cercare di dare una personalità e un contorno di colore a questi temi. Parli delle cose della vita, delle persone e a questi argomenti metti un costume. Definire una personalità dà forza ai temi che tratti e poi facilita la comprensione. Padania si prestava benissimo a queste intenzioni. E poi come idea immaginifica poteva rappresentare il malessere che stiamo provando tutti, nessuno escluso, qui e all’estero. Inquadra temi che non sono solo regionali, nazionali. Padania come stato immaginario, come stato del malessere, come stato del niente, e non come stato della perdizione, perché non è una Sodoma e Gomorra, piuttosto è la condizione dell’uomo che cerca di darsi delle regole, degli obiettivi, che lotta per ottenerli per poi arrivare al fallimento di questo tipo di visione. Quindi non rappresenta il paese della corruzione, il male, il potere, i soldi. Padania è il mondo delle persone oneste che sbagliano strada, e si perdono in maniera più sottile, combattendo tutti i giorni per la sopravvivenza o il miglioramento della propria condizione, e poi in realtà si allontano sempre più da quello che volevano essere all’inizio, dal motivo stesso per cui hanno cominciato a combattere, un motivo che è diverso per ognuno di noi. Non riesci a dire esattamente quale possa essere. Io da piccolo volevo fare l’archeologo, invece faccio il musicista e non suono al Primo Maggio! Sto cercando di dirti che si tratta di piccole storie, anch’io sono un personaggio di questa vicenda, anch’io mi ritrovo a combattere per degli obiettivi che non mi stanno più portando felicità, sono solo battaglie che devo vincere per mantenere quello che ho, la vita che mi sono costruito, lontana da quella che volevo.
Quindi rispetto al mondo della iena, in Padania c’è un cambio di prospettiva?
Manuel: La figura della iena riguardava noi. Le iene eravamo noi e in qualche modo gli altri: si partiva da un discorso personale che tendeva ad una forma di generalizzazione per cui gli altri potevano vivere un processo di identificazione. In Padania si raccontano storie, ci sono vari protagonisti, che noi osserviamo e in cui ci specchiamo, per certi aspetti. Quindi la prospettiva è assolutamente invertita. La visione è rivolta verso l’esterno.
Metamorfosi non a caso apre questo disco in maniera indicativa…
Manuel: Sì, Metamorfosi è un pezzo su un cambiamento non positivo. Un cambiamento che ti viene imposto e non decidi tu. Succederà e basta. E’ la metamorfosi. Il protagonista del racconto di Kafka si sveglia una mattina e si scopre un insetto, non ha deciso lui quella mutazione, la sta subendo. Ed è quello che sta succedendo a tutti noi in questo momento: c’è un cambiamento radicale in atto, non possiamo decidere che cosa sia né scegliere di abbracciarlo o meno, c’è e basta. Sappiamo cosa eravamo ma non sappiamo che cosa stiamo per diventare. Quindì, sì, è un pezzo indicativo. E lo è anche la sua atmosfera. Il protagonista, che poi ricorre in tutto il disco, dice “vorrei spiegarti che cos’ho”, ma in realtà non ne è capace. Ci prova a spiegarlo: “è come un cane rabbioso che morde a sangue il mio futuro”, c’è qualcosa che sta condizionando il suo futuro più della sua stessa volontà.
Metamorfosi segna l’inizio più intenso e di più forte impatto emotivo tra tutti i vostri dischi, E’ come la chiave di volta dell’immaginario di Padania, per temi e umori sonori. Quindi è indicativo dell’intero disco anche per la varietà delle soluzioni stilistiche, in bilico tra melodia e sperimentazione, a partire dall’uso stesso che fai tu, Manuel, dello strumento voce…
Manuel: Parto dalla tua osservazione sulla voce in quanto strumento. Sono d’accordo fino ad un certo punto. Demetrio Stratos la usava in quel modo, in realtà io non faccio sperimentazione con la voce per creare suoni. Voglio usare la voce in quanto cantante, quindi cantare su delle strutture, per quanto strane. Sono molto più vicino all’uso che della voce fa Diamanda Galás, sempre nel contesto canzone e lontana dalla sperimentazione fine a se stessa. E proprio questa visione della sperimentazione non estrema è comune a tutti i membri della band. Abbiamo usato la sperimentazione con molta leggerezza, come forma di libertà. E credo che questo si percepisca. Anche se è un disco difficile, comunica subito la sua intensità, la sua forza. Poi magari non leggi tutto subito, un pezzo ti piace all’istante, un altro no (e forse non ti piacerà mai), però Padania ti spinge al riascolto, al ritorno.
Ho sempre considerato la vostra musica moderna, contemporanea perché sempre al passo con i tempi. Siamo della stessa generazione, e nella vostra musica ho sempre sentito proprio la mia generazione, sia per temi che per suono sempre frutto di una precisa ricerca ed evoluzione. Voi percepite così la vostra musica, cioè figlia del tempo che nel tempo avete vissuto?
Giorgio: Io la percepisco assolutamente così. Magari risulta un po’ semplice, e forse lo è. I nostri dischi hanno sempre rappresentato una fotografia del periodo che stavamo vivendo, come adesso accade per Padania. Quando esce un disco nuovo, guardi gli altri precedenti con affetto, non li cambieresti di una virgola, ma ti accorgi che nell’arco degli anni che li separano ogni fotografia cambia, e quella che hai riprodotto col disco nuovo è proprio quella che ti sta circondando nel momento presente, a te contemporaneo. Questo traspare in sintesi e nello specifico dai testi che scrive Manuel, con i suoi cambiamenti, e dal punto di vista musicale.
Il discorso vale per la musica sia nella sostanza che nella forma, nel senso che il desiderio di fare un disco che abbia un valore in sé riguarda anche il suo essere un oggetto, come abbiamo sempre sottolineato e oggi ancora di più. Padania è un disco nato e conformato in base ad una vera e propria forma di crisi di astinenza rispetto a musica di questo tipo. Mi spiego, noi stessi facciamo fatica a farci emotivamente coinvolgere da dischi di inediti che richiedano ascolti ripetuti, e che ti vuoi godere dall’inizio alla fine senza alcun salto di parti, aspetto che si è perso per colpa del supporto. Il vinile incentivava alla realizzazione di opere complete, connesse tra le parti. L’evoluzione della musica in digitale, pensa alle impostazioni dell’Ipod, ti porta ad avere una tale quantità di musica che finisci per sviluppare una tendenza all’ascotlo schizofrenico.
Il lavoro svolto durante questo disco ha portato ad un risultato che dà proprio il senso di quella che tu indicavi come ricerca. Per Padania abbiamo seguito un metodo di lavoro che ci avrebbe potuto portare molto oltre, abbiamo sperimentato varie soluzioni e siamo arrivati a scegliere, non è importante ciò che tieni e ciò che escludi, l’importante è fare comunque quella ricerca. Tra possibili soluzioni magari tieni la prima trovata, ma sai che ne hai sperimentate molte, che non ti sei fermato. Sai che hai esplorato il più possibile e questo umore nel disco si sente molto forte nella sua totalità.
Insistendo sull’evoluzione e il cambiamento che contraddistingue la vostra musica, vi chiedo di parlarmi del ritorno di Iriondo. Un ritorno che segna un contributo diverso rispetto al passato, no?
Giorgio: Sì, è assolutamente vero. Il suo rientro viene ricollegamento direttamente alle parti chitarristiche di Padania, ma non è esattamente così. Xabier ha contribuito in maniera importante al nuovo disco, ma molto più marginale rispetto a quello che si possa immaginare. E’ entrato già in corsa. Ciccarelli ha avuto un peso specifico notevole…
Manuel: Un disco è il risultato del lavoro di tutti. Ovvio che se parliamo di soluzioni chitarristiche Ciccarelli ha avuto un peso maggiore. Il punto è che la gente, come diceva Giorgio, crede di poter facilmente fare 2+2! Xabier non era quello che segnava la matrice della sperimentazione e dei chitarroni negli Afterhours, non è mai stato così, è stato “anche” così. Tutti noi avevamo quel tipo di approccio, poi le strade hanno preso direzioni diverse: noi quella della canzone e lui quella della sperimentazione pura/improvvisazione. Le due parti erano strettamente connesse in ciascuno di noi prima, non c’era la scissione che la gente ha visto a posteriori.
In Padania Ciccarelli ha portato delle soluzioni egregie ed è coautore di una parte consistente delle musiche. La gente tende sempre a dare tutto per scontato. Viene riconsciuto il ruolo di D’Erasmo e non di Ciccarelli, e si pensa che i colori delle chitarre siano dovuti al ritorno di Iriondo, ma non è affatto così. Pensa che sono stati citati dei pezzi specifici in questo senso, tipo Fosforo e blu come tipico esempio del sound di Iriondo, ma in questo pezzo Iriondo nemmeno suona!
Dove non arriva l’orecchio accendente gli occhi e leggetevi i credits!
Manuel: Esatto! Detto questo, ed è anche brutto dover specificare, Xabier è una grande risorsa per gli Afterhours, è un musicista straordinario e il suo contributo in Padania è preziosissimo. Ha innescato un cambiamento a livello di energia che è stato fondamentale, lui è una forza della natura. Però circolano troppe leggende inesatte. E dico semplicemente che è giusto mettere in chiaro i ruoli, anche quello di Ciccarelli.
Nel tempo gli Afterhours hanno perso vari membri in un processo di avvicendamento delle parti. La perdita è sempre stata trasformata in un punto di forza, in un’occasione per cambiare la pelle del vostro rock, no?
Giorgio: Impari a farlo. Nella nostra storia di band ci sono stati vari avvicendamenti, certe volte anche secondo modalità dolorose innescando una reazione sia collettiva che personale, quindi a livello di band e di singoli. Mi fa molto piacere che tu metta in evidenza questo aspetto perché è proprio così: abbiamo imparato a gestire queste situazioni di difficoltà proprio come fonte di stimolo. Il distacco ti procura dispiacere per non poter più condividere un progetto, ma ti aiuta anche a crescere.
Manuel: Poi, sai, la gente tende ad identificare i dischi con le persone che ci suonano, è normale ed è anche vero, ma non è del tutto così. Non puoi associare I milanesi ammazzano il sabato con Gabrielli, Padania al ritorno di Iriondo e così via… I gruppi sono sempre delle alchimie. Un suono è un’alchimia.
Manuel, se pensiamo a I milanesi, che hai citato, certi colori non sono stati abbandonati con l’uscita di Gabrielli. Sono stati metabolizzati nel nuovo corso, ricontestualizzati… nel senso dell’identità del progetto…
Manuel: esatto, è proprio così.
Manuel, parliamo dei testi di Padania. Un disco rock con delle parti di cantautorato sui generis, non “lineare” e molto lontano dalla visione tradizonalista che abbiamo in Italia. E le parole sono sempre ricercate e incastrate secondo un criterio ben preciso. Cosa è rimasto del cut up nella scrittura di Padania?
Manuel: Quell’approccio mi è rimasto dentro come libertà mentale nella costruzione delle frasi che possono apparire illogiche e incapaci di stare in piedi. E’ il mio modo di parlare quello che arriva nei testi, riproduco il mio stesso linguaggio quotidiano fatto di associazioni. Per me è tutto molto naturale.
Secondo me, il modo di scrivere di alcuni cantautori è un po’ scolastico. Si pretende dai testi sempre una linea narrativa chiara, logica. Le parole non devono servire solo a raccontare delle storie, le parole sono anche suoni che provocano delle emozioni, questo ce lo insegna tutta la musica anglosassone e la letteratura. Quando scrivo un testo non sto per forza scrivendo una storia, e non bisogna cercarla… perché non c’è! Alcune parole hanno una certa posizione per accrescere il senso di panico, l’urgenza, la rabbia, l’odio, il disorientamento. Uso certe parole per intensificare il senso e l’umore del pezzo, infatti spesso sono scritte dopo con un ruolo preciso. Ogni parola che scelgo ne ha. Le parole sono lì per emozionare.
E’ come in certi quadri…
Manuel: Esatto. Perché ci metto il rosso? Perché è più forte. Perché mi aiuta ad arrivare dritto al tipo di tensione che ti voglio comunicare. Non perché la faccia sia rossa. Il concetto di avanguardia era scomporre questo tipo di visione logica. Nella musica sarebbe ora di arrivarci a livello testuale. Liberiamoci dalla schiavitù dalla logica, dal raccontino a tutti i costi. Preciso, in Padania a mio modo ci sono delle parti narrative, come notavi, che servono da appiglio per un filo conduttore, penso a Costruire per distruggere, La terra promessa si scioglie di colpo, Spreca una vita. E poi ci sono pezzi come Ci sarà una bella luce dove le parole hanno una posizione precisa per spingere l’emozione, l’urgenza, non necessariamente per raccontarti qualcosa.
Dimmi delle provocazioni dei due messaggi promozionali, che dal punto di vista musicale non sono affatto dei riempitivi…
Manuel: Infatti non sono dei riempitivi e nemmeno degli scherzi. Sono pezzi veri e propri che hanno la funzione di spot, perché nell’immaginario di Padania ci sono. Dopo la tragedia al telegiornale con l’immagine del bambino caduto nel pozzo… un secondo dopo ti arriva la pubblicità dei vestitini. L’abbiamo visto anche al Primo Maggio: un minuto di raccoglimento per le vittime del lavoro e poi arriva lo spot. I momenti di tensione e tragedia vengono sfruttati perché alzano il livello di sensibilità e attenzione delle persone per poi inondarle con lo spot. Questo c’è anche nel disco a livello provocatorio, è chiaro. C’è il brano intenso e poi ti arriva lo spot. Avevamo addirittura l’idea di enfatizzare questo concetto sul secondo spot attivando un numero verde per raccogliere le chiamate per l’acquisto degli spazi pubblicitari.
Per quanto riguarda il primo messaggio l’attenzione si concentra su quel clima di tragedia che arriva dall’informazione, innescando un terrore interiore che ci blocca e ci tiene a casa sul divano e non ci fa agire. Ovviamente questa quantità di informazioni tragiche ci arriva molto di più dalla rete, ma non ci stava metricamente e poi la televisione ha ancora la sua bella parte. Il terrore puro che ci passano in tv vuole dirci semplicemente: rimani a casa e non rompere. In realtà basta spegnerla. Da quattro anni l’ho spenta. E sono guarito, anche se ce l’ho in casa la uso solo come schermo per i dvd. Dopo aver smesso di guardarla, mi sono reso conto che tutti i condizionamenti che ci dà sono davvero solo virtuali, non hanno ragione di determinare le nostre esistenze. Sono cose molto più piccole di quelle che vogliono farci credere. Il nostro è un invito molto leggero, un messaggio molto banale e psichedelico, molto anni 70: vogliamoci tutti bene, mettete i fiori nei vostri cannoni, è davvero così.
I gruppi emergenti partono con le autoproduzioni e ambiscono all’etichetta, sia essa indipendente sia la major di turno. Voi avete fatto il percorso inverso: dalle regine delle indipendenti, Vox Pop e Mescal degli anni d’oro, alla Unversal, e infine all’autoproduzione. Cosa vuol dire per un gruppo come il vostro, con una storia ventennale, gestirsi ad ogni livello così, oggi?
Manuel: Vuol dire tornare a fare dei sacrifici, però essere anche più leggeri psicologicamente. Mi ha colpito molto uno dei commenti lasciati in occasione della questione relativa al Primo Maggio, si metteva in dubbio se capissi i sacrifici dei ragazzi per arrivare fino in piazza. Come posso non pensare io al sacrificio? Io che ho investito tutti i soldi che ho per fare questo disco, senza una struttura alle spalle, senza una casa discografica perché non abbiamo voluto pur potendo. Ovviamente abbiamo la libertà di sceglierlo questo sacrificio. E’ una questione di azione, e ci fa stare bene, ci toglie dei pesi, delle manette, ma è pur sempre un sacrificio. E lo facciamo perché è quello che sappiamo fare nel nostro modo. Altri hanno talenti diversi, a loro non costa non sentirsi grotteschi in situazioni grottesche, sorridere sempre. Noi non siamo così, in situazioni grottesche ci sentiamo grotteschi e soprattutto lo dimostriamo. Quindi non possiamo stare in certi contesti.
Giorgio: La stessa persona che ha espresso quel giudizio a proposito del Primo Maggio, se noi avessimo accettato di salire su quel palco a mezzanotte e mezza con i volumi dimezzati avrebbe assistito ad una finzione, a nulla di vero e sincero. E in seguito avrebbe detto di aver fatto un sacrificio per arrivare fino a Roma col treno per uno spettacolo indegno.
Manuel: Bisogna avere il coraggio di prendere delle posizioni. Non si capisce che se cedi al ricattino di dover suonare perché altrimenti sei tu a rimetterci a livello di immagine… questo meccanismo non verrà mai spezzato, e continuerà a esprimere prodotti di bassa qualità in cui la musica sarà sempre più marginale. La gente che prende posizione aiuta la qualità. Più gruppi prenderanno posizione, rischiando anche di essere impopolari, e prima le cose cambieranno. Non si può scegliere la piacioneria per ottenere il favore dei fans, non può essere l’unico scopo per chi fa cultura.
In questo clima di evoluzione digitale, cui accennavamo prima, quanto conta per voi il supporto fisico inteso alla vecchia maniera? Mi riferisco al disco come oggetto artistico in senso lato, e quindi alla vostra idea di arte in questo momento della carriera.
Manuel: E’ molto importante. L’amore per il supporto è quello che ti spinge a comprarlo, altrimenti scarichi dal web. Noi continuiamo a considerare il disco, il supporto, come un biglietto da visita.
Gli Afterhours vogliono diventare sempre più un progetto a diverse facce, dando molta importanza alle attività collaterali, per bypassare sempre di più la rete e comunicare il messaggio dell’esserci fisicamente. Bisogna considerare la comunicazione virtuale, sia essa meravigliosa e utile, per quella che è: comunicazione. Non è un’altra vita. La vita rimane quella fisica. Scendere in piazza, prendere posizioni concrete. Gli happening, gli eventi saranno al centro per noi. I concerti lo sono sempre stati ma lo saranno ancora di più. In tutto questo il disco rimane un biglietto da visita ma deve valerne la pena, per questo abbiamo deciso di curare in modo particolare l’oggetto, come abbiamo cura di tutto ciò che facciamo. Mi ha colpito molto una frase di Mauro Pagani a proposito. Sai, spesso me ne dice quando vado a trovarlo e ne faccio tesoro. Per esempio, una volta mi ha detto che non si finisce mai di imparare, e mi ha fatto sentire meno grottesco quando un anno fa ho ripreso a studiare pianoforte; lui ha ragione, è una cosa meravigliosa non fermarsi e non limitarsi, non dobbiamo pensare di non poter fare perché troppo avanti con l’età. Ma mi ha colpito ancora di più quando mi ha detto che lui ha deciso di voler fare solo cose belle. Conta fare solo cose belle, deve essere il primo desiderio. Tutto il resto l’abbiamo già fatto, abbiamo già combattuto. Dobbiamo sentirci liberi dal dovere e dobbiamo sentirci in dovere di godercela e fare solo cose di un certo tipo, di una certa qualità. Poi, è ovvio, non tutto può riuscire bene però lo scopo deve essere quello. Per noi vale questo principio. E così agendo scegli di dire dei no. Non potresti fare cose belle se accettassi tutto ciò che ti propongono. Impari a rinunciare. Vogliamo che ogni cosa che facciamo sia bella, tenda alla bellezza.
Metamorfosi