Il tour dei Muse è stato sicuramente un evento molto atteso, dipinto come tra i più importanti dell’estate italiana. Non si tratta delle date più attese in assoluto, sia in termini “storici” (l’atterraggio degli alieni Atoms for peace di Thom Yorke è sicuramente l’evento più desiderato dal pubblico del rock) come anche in termini numerici (in Italia Vasco Rossi continua ad imperare). Certo è che le tre date (28-29/06 Torino, 03/07 Roma) sono ghiotte occasioni per i numerosi fan dei Muse.
Partiamo da un concetto fondamentale: chi si può permettere di esibirsi in uno stadio è una semi-divinità, o quantomeno è un’eccellenza del panorama musicale internazionale. La semi-divinità può permettersi di attaccare la chitarra e suonare senza tanti altri artifici scenici perchè gode di una particolare aurea di venerazione, mentre la “semplice” eccellenza della musica deve invece necessariamente spararla grossa. Nello stadio, il pubblico visto dal palco è un insieme di tanti puntini urlanti più o meno colorati; il musicista visto dal pubblico, invece, è poco più di una stanghetta con uno strumento appresso, e se per caso dovesse essere vestito dello stesso colore dello sfondo, manco lo si vede. Questa è la realtà. Queste sono le motivazioni per le quali i Muse, pur essendo soliti ormai a grandi e complesse scenografie, nel 2nd Law Stadium Tour hanno voluto davvero esagerare, consci di essere soltanto delle “muse” e non “semi-divinità”.
Liberiamo quindi il campo da banali e sciocche polemiche su un eventuale inappropriato uso di effetti scenici: gli U2 lo fanno da anni, i Pink Floyd di Roger Waters lo facevano decenni fa e, indubbiamente con maggiore eleganza e poesia dei Muse, lo farebbero anche ora se potessero. Non chiamiamolo concerto: si sta parlando di spettacolo.
Lo spettacolo dei Muse, nella sua prima data torinese, è stato graziato da un sole poco presente e nuvole per niente minacciose, così che i tanti in coda fin dal mattino sono potuti entrare con ancora le forze da consumare saltando sulle note della band inglese. Prima dei Muse, nel pomeriggio si sono esibiti due altri gruppi. I bravi Arcane Roots hanno rotto il ghiaccio con un rock capace di scagliare fendenti tipici dei Mars Volta, ed altri colpi più morbidi e “britannici” in stile Kings of Leon; dopo di loro è toccato ai più “piacioni” We are the ocean scaldare il pubblico con brani orecchiabili di minore qualità ma più ampio appeal.
Sono le 21:30 quando lo spettacolo dei Muse inizia. Un robot di grandi dimensioni si muove sul palco soffiando fumo dalle orecchie fin quando la band appare sul palco nel momento in cui si svela l’incredibile resa scenografica del palco. L’imponente struttura, simile ad un palazzo industriale con tanto di ciminiere, si colora: un ordinato groviglio di tubi confluisce in un enorme meccanismo al centro della parete di schermi; pulsa costantemente come un cuore meccanico.
L’introduzione con The 2nd law: Unsustainable lascia il posto alla graffiante ed arrogante chitarra di Supremacy incendiando (letteralmente) l’intero stadio: una grande palla di fuoco esplode nel centro del prato dell’Olimpico di Torino, proprio dove finisce la lunghissima passerella che dal palco si spinge nell’abbraccio del pubblico. L’onda di calore che si abbatte sulla gente funge da richiamo selvaggio e primordiale al quale è impossibile restare indifferenti. Sbuffi di fuoco continuano ad essere lanciati nel cielo dalle ciminiere poste sopra al palco, mentre il pubblico si agita, eccitato dalla musica e dalle vampate di calore proveniente dai fuochi.
Esagerazione, colpi di scena, megalomania pura curata nei dettagli per creare un grande show di intrattenimento totale. Subito, dopo pochissimi minuti, irrompe la furia dello storico brano Plug in baby, poi i vari successi della band del Devon: The Resistance, Knights of Cydonia, Hysteria, Feelin good, Time is running out, Unintended, e una decina di brani dall’ultimo album. I pezzi si susseguono tra una miriade di scene differenti grazie a incredibili soluzioni tecnologiche. La grande struttura alle loro spalle lavora interamente come uno schermo, le cui geometrie variano di brano in brano riproducendo immagini, filmati, animazioni 3D. Sugli schermi si possono vedere anche le immagini riprese in diretta durante il live, con una qualità sorprendente grazie anche all’uso di grandi e versatili gru con camera che permetto riprese da tutte le angolazioni, perennemente in movimento a 360 gradi.
La passerella che si allunga in mezzo al pubblico ospita più volte intere esecuzioni di brani da parte di Bellamy (con la chitarra o con un pianoforte a coda apparso magicamente come nei teatri) ma anche da parte dell’intero terzetto (sì, magicamente appare anche la batteria!).
Tutto questo non basta. Sulla passerella si alternano anche altri personaggi, attori: prima sugli schermi e poi sul palco, uno spregiudicato manager aziendale cammina delirante stracciando banconote, per poi morire rovinosamente al centro dello stadio; simile fine è programmata anche per un’avvenente donna d’affari che, sulle note di Feelin good, con perversa ingordigia beve gasolio da una pompa del carburante; per ultima un’acrobata incanta con le sue evoluzioni nel cielo sospesa ad una grandissima lampadina (pallone aerostatico) che si muove alto sulle teste del pubblico.
Tutto lo stadio è in delirio di fronte ad uno spettacolo di una teatralità non prevedibile. Nonostante ciò la musica non è in secondo piano. Sul palco Matthew Bellamy (chitarra, voce e piano) si dimostra ancora un frontman magnetico, seppure estremamente vanitoso, efficace come musicista e cantante. Chris Wolstenholme (basso e voce) è invece il personaggio più sobrio della band: fisico imponente, poco movimento sul palco, concentrato sulla musica, ma inaspettatamente concede un paio di sorrisi sinceri rivolti al pubblico (oltre che l’armonica, lanciata alla folla). Dominic Howard è l’altro pazzo del gruppo: la sua batteria è una macchina da guerra e l’esaltazione nei suoi movimenti lo rendono un personaggio estremamente dinamico e spettacolare pur essendo costretto alla sua postazione. Insieme ai tre, sul palco in posizione defilata c’è anche Morgan Nicholls a suonare più o meno tutto, principalmente tastiere, synth e percussioni.
Il live dei Muse di questo 2nd Law Stadium Tour è indubbiamente improntato su un forte impatto d’immagine, ma nulla sarebbe se dietro di questo spettacolo di colori non ci fosse quella musica, tanto “tamarra” quanto adrenalinica e capace di coinvolgere trentamila persone raccolte di fronte ad un palco. Alcuni forse sono rimasti delusi. Molte basi, meno spontaneità: nessuna improvvisazione è concessa in questa speciale serie di concerti che si avvale di una produzione faraonica.
C’è chi vede la scelta della band come un rinnego del passato puramente rock, il tutto per virare verso orizzonti squisitamente pop che hanno il profumo del denaro facile. Indubbiamente la musica dei Muse è cambiata rispetto ai loro inizi: ora la poetica contorta (testi ed estetica) è sostituita da una più sensazionalistica ed immediata comunicazione, mentre la ricerca musicale ha scandagliato tutti i generi diventando un personale mix di ciò che in occidente si è sentito da qui a cinquant’anni fa (compreso ovviamente il pop). Dubito, però, che i Muse, e con loro il grande staff che li accompagna, si dimostrino così fessi da bruciarsi con la fiamma che tengono tra le mani, la stessa con la quale si fanno notare da un vastissimo pubblico.
Il lato megalomane del loro progetto sta raggiungendo il culmine e difficilmente potrà spingersi oltre. Questo tour è stato un’apoteosi di eccessi, ma come si diceva all’inizio, in uno stadio è difficile fare altrimenti, e chi può farlo è giusto che lo faccia. L’importante è non usare lo spettacolo per nascondere la musica, e per ora i Muse da questo sono ancora ben lontani. Al di là dei gusti personali, si potrebbe dire che i Muse stanno alla musica come James Cameron sta al cinema!
Sono invece assolutamente legittime le critiche rivolte ad una produzione mastodontica (costi, consumi energetici, inquinamento), poi se si rende un poco elastica la mente si può pensare cosa ha comportato la realizzazione dell’evento: solo per questo singolo concerto ben 35mila persone si sono recate allo stadio Olimpico di Torino e di questi molti hanno soggiornato lì alimentando in diversi modi l’economia cittadina (alberghi, musei, ristoranti, trasporti ecc); l’evento in sé ha permesso a centinaia di persone di lavorare direttamente per la sua realizzazione (stadio, tecnici, allestimento, noleggi, mezzi, security, merchandising, comunicazione, organizzazione…). È indubbio che lo show-business abbia tanti difetti evidenti ma, a parer mio, in tempi come questi, eventi del genere sono soltanto da benedire! (Fotografia tratta dall’album di VivoConcerti)
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