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Tutto può finire: intervista a Emidio Clementi (Massimo Volume)

La forza espressiva delle parole. La loro ferocia. La loro rivelazione. La forza trascinante della musica. La sua vorticosa armonia disturbante. La sua alterità. La forza mantrica dei Massimo Volume. La loro unicità. La loro estrema bellezza. Ad ogni ritorno. Ad ogni nuovo capitolo discografico che è occasione di alternativa effettiva a tutto ciò che fa mercato, strategia, volgarità. Aspettando i barbari, in uscita l’1 Ottobre sotto l’egida de La Tempesta, conferma lo spessore di una band come poche, in equilibrio perfetto tra inclinazione letteraria e talento rock. Abbiamo incontrato Emidio Clementi da qualche parte della notte per farci raccontare i barbari, l’importanza della paura, del cambiamento.

Aspettando i barbari. Trovo questo titolo il più suggestivo e il più aggressivo della vostra storia artistica. Una sintesi perfetta che è come una mina concettuale. Esplode in tutta la sua forza comunicativa… Vorrei che mi parlassi di questo. Dell’immagine sintetica e del suo potere contenutistico…
Ti dico la verità. All’inizio ne ero anche spaventato. Sarà troppo letterario?, mi chiedevo. Poi però mi sembrava suggestivo sfruttare quello spazio temporale, l’attesa. Riesce a tingere di una tinta particolare qualsiasi gesto, anche il più banale.

Insisto sul titolo. Affonda il suo senso letterale in una dimensione storica, quella ellenica. E acquista un senso spirituale, oggi. Ho pensato a Kavafis, al suo componimento. Alla domanda dell’incipit: “Che aspettiamo, raccolti nella piazza?”. L’attesa e la paura, la difesa e la lotta. Noi, ne abbiamo bisogno? Abbiamo bisogno dei barbari, del nemico, del cambiamento?
Io almeno ne ho bisogno. Pensa ai rapporti sentimentali, è indispensabile convivere con la paura di perdere la persona amata. È quello che mantiene in vita il rapporto. Vivere con l’idea che tutto può finire, anzi, che finirà, libera la mente dagli intralci. Si va dritto al sodo.

Mi parli della letteratura che ha nutrito Aspettando i barbari?
Dolci, Dylan, Roth, Parise, i diari di John Cage e qualche ispirata conversazione nello spogliatoio della piscina dove da anni vado a nuotare.

Ci sono diversi modi per iniziare. Puoi farlo con moderazione, introducendo lentamente. Puoi farlo con furore. E ti cito Steinbeck non a caso: Furore comincia esattamente come il titolo vuole. Anche questo disco comincia così, con un suono spigoloso e dirompente, da subito toglie il fiato e non lascia scampo. Dall’inizio alla fine. Parlami di quest’urgenza, di quest’assedio all’attenzione di chi ascolta…
La vulgata vuole che il periodo tardo di un artista porti compostezza, senso della misura, imborghesimento. Il synth di Dio delle zecche forse è un modo per spazzar via certi luoghi comuni.

Parlami di due importanti ingredienti di questo disco: l’elettronica e le rime.
L’elettronica era un po’ di tempo che avevamo voglia di inserirla. Tutti quanti l’ascoltiamo. Riguardo le rime, è un modo per allacciare meglio le parole alla musica. All’inizio ne ero spaventato, sembravo una pagina del Gatto col cappello matto. Poi, da quando non ci ho più pensato, mi sono sembrate meno invadenti.

Come mai proprio Gipi per firmare la regia del video de La cena?
Ci piace molto il suo lavoro. Volevamo un taglio autoriale. Mettere insieme due modi diversi di raccontare storie e vedere quello che usciva fuori.

Quando ho ascoltato Compound mi sono detta: ecco, questo è il centro. Credo sia il manifesto dell’intero disco, lo rappresenta. È come se tutta la tensione si concentrasse in quel punto con una forza magnetica che è pura poesia. E per te? Per te c’è un centro in Aspettando i barbari?
Non posso confrontare i pezzi tra loro. Sono come figli. Bisogna amarli tutti alla stessa maniera. Anzi, nei confronti di quelli che hanno dei difetti si prova ancora più affetto.

Una mia suggestione… Compound mi ha fatto pensare a Gli uccelli di Hitchcock…
Ero in vacanza a Leros con tutta la famiglia. La casa era una classica costruzione greca, col tetto piatto, dove puoi stendere i panni. E c’erano questi uccelli, forse gabbiani o forse erano corvi, che all’alba zompettavano sopra la nostra testa. Un rumore metallico. Pareva che avessero le zampre di ferro.

In Cattive abitudini rinvenni una gran forza narrativa ne La bellezza violata. In Aspettando i barbari ritrovo la stessa forza ne La notte e Silvia Camagni. Due brani con personaggi che infondono grande curiosità, sulle curve della loro vita, dei loro pensieri…
La bellezza violata è un racconto mancato. Negli altri due ho preso a prestito lo stile del Dylan anni ’60, quello per intenderci di Highway ’61.

Oso un richiamo. In un mondo dopo il mondo i barbari li aveva già visti far saccheggio? A posteriori, mi sembra un brano profetico…
A me piace molto quel brano, per come è sospeso in uno spazio temporale tutto suo, indefinibile. Ho cercsato di riproporre quel tipo di ambiguità anche nelle tracce di Aspettando i barbari.

Questo è un disco denso di personaggi. Se dovessi raccontarmi di loro, nel complesso, che parole sceglieresti? E quali di loro tornano spesso a farti visita?
Molti li stimo: Chesnutt, Fuller, Hockney, Cage, Dolci. Altri mi fanno paura. Con Silvia (Camagni) riesco a essere protettivo come con una figlia.

La copertina. La mente è tornata a Club privé. Alla stessa forza espressiva di un connubio musica-pittura particolarmente suggestivo. Come avvenne la scelta all’epoca e come è avvenuta oggi?
In Club privé c’era la voglia di inserire la musica in un ambiente sofisticato e decadente e il quadro di Christian Schad ci sembrava perfetto. Il quadro di Mendoza, invece, come il disco mette in scena un’inquietudine domestica. Il punto di contatto credo sia proprio quello.

E i puri? Sanno aspettare i barbari?
I puri sono di solito piuttosto noiosi. Sono per la trattativa, per la politica, le commistioni.

La cena – Video

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