LostHighways non ha paura di sbagliare, di confrontarsi, di scoprire. Johann Sebastian Punk è un progetto giovane e particolarmente irriverente, da alcuni osannato, da altri aspramente criticato, e commentato in modo scettico da persone come noi che hanno bisogno anche di scambiare due chiacchiere ed assistere ad un live (all’INDIElicious di Bologna) per comprendere meglio. Abbiamo quindi incontrato Massimiliano Raffa che del progetto Johann Sebastian Punk ne è la mente. Rimane ancora difficile distinguere il confine tra ironia, provocazione e genialità, ma certamente un passo avanti lo abbiamo fatto.
More lovely and more temperate è un esordio, ma non senza precedenti musicali. Parlaci un poco di te prima di Johann Sebastian Punk.
Il mio primo demo risale al 2002. Ero un tredicenne brufoloso, schizzato e disturbato. Ai grandi amori pop di sempre (Beatles su tutti) accostavo ascolti di gente come Alvin Lucier, Morton Feldman, Pierre Schaeffer, Ryoji Ikeda, Hermann Nitsch. Tutte cose che adesso mi fanno tornare i brufoli di allora solo a nominarli. Il mio tentativo era quello di sfruttare le tecnologie digitali emergenti scrivendo delle canzoni pop dalla struttura non convenzionale e che si nutrissero di intuizioni e suggestioni mediate dalla musica sperimentale. Col tempo ho esplorato tantissimi generi musicali e negli anni ho prodotto cinque demo dei quali mi vergogno e dei quali sono orgoglioso a fasi alterne ma alcune volte contemporaneamente. Poi un po’ per scherzo qualche anno fa, quando dalla Norvegia approdai a Bologna scoprendo la miseria dell’indie italico, scrissi Voglio Vivere a Voghera, parodia del cantautorato corrente italiano. Pubblicai la canzone su YouTube e senza pubblicità alcuna qualche mese dopo finì per essere passata da Radio Deejay. Pensai a quanto è facile colpire col tema facile e terreno. E allora decisi di dare alle canzoni alle quali stavo lavorando un taglio del tutto controtendenziale proprio mentre cominciavo a suonarle con i miei tre bandmates. Così nacque Johann Sebastian Punk, fu una sorta di scommessa con me stesso. Forse è il mio progetto programmaticamente meno segnato da un istinto innovatore, ma in realtà trae tutta la propria energia iconoclastica da questo.
Chi è quindi ora Johann Sebastian Punk? Hai trovato la tua identità definitiva o pensi sia una tappa di un percorso?
Johann Sebastian Punk è sicuramente un progetto. È appena nato e vivrà ancora a lungo. In mente ho anche altre cose, alcune delle quali necessiteranno di una base economica molto consistente per andare in porto. Ho dei piani catastrofici in mente e, se mi saranno fatte le giuste concessioni, vi mostrerò di cosa sono capace.
Il tuo disco, More Lovely ad more Temperate, è stato accolto con molto entusiasmo mentre noi di LostHighways ci siamo sbilanciati meno… su di te qualche dubbio lo nutriamo ed è per questo che abbiamo voluto incontrarti e saremo a sentirti il 26 Maggio all’INDIElicious di Bologna. Cosa ci dobbiamo aspettare dal tuo live? Esibizione e disco per te sono due realtà completamente differenti o sul palco c’è una trasposizione fedele di quanto registrato?
Il live per INDIElicious sarà una versione omeopatica del nostro set. Il nostro è un concerto in cui tecniche espressive di matrice teatrale e musica si rincorrono continuamente. Non solo canzoni ma anche gag, recital, giochi con gli spettatori. Il concerto al Parco del Cavaticcio invece sarà solo musica. Suoneremo 5-6 pezzi per 30/40 minuti di concerto. Tutti pezzi in cui l’audience interagisce poco con noi. Abbiamo in programma altri concerti a Bologna e dunque l’obiettivo sarà incuriosire e dare un breve saggio del nostro show. Scoprirete che il live è totalmente diverso dal disco.
Ti presenti con un nome “singolo” ma con te c’è una band. Il lavoro creativo che ha dato alla luce More lovely and more temperate è solo farina del tuo sacco o è frutto di un lavoro organico?
Anche Pink Floyd, Led Zeppelin e Queen sono nomi al singolare. Eppure erano in quattro. Stessa cosa noi. Quindi non solo io, ma anche Pino Potenziometri, Albrecht Kaufmann e Johnny Scotch. Dei musicisti straordinari (a differenza mia, che tecnicamente sono un cantante e musicista molto mediocre benché baciato dal demone dell’ispirazione) che avrete modo di apprezzare e che nel disco hanno comunque un ruolo importante nonostante il grosso l’abbia fatto io.
È’ innegabile che il tuo disco sia in grado di stupire ed incuriosire: tantissimi riferimenti (musicali e letterari), accostamenti di generi e sonorità azzardati, una notevole ed orgogliosa “faccia tosta”. Hai mai temuto di scivolare nel citazionismo? Hai mai pensato di aver esagerato in questo barocchismo musicale? Si dice che il troppo stroppia…
Temuto il citazionismo… direi proprio di no, mi pare anzi che il disco abbia riferimenti molto poco rintracciabili nel suo complesso e in maniera sistematica. Poi in generale penso che ci sia poco da temere quando ritieni di aver scritto il disco più bello uscito in Italia da molti anni a questa parte. E no: non penso di aver esagerato. È’ un disco pensato così. Chi lo trova esagerato ha solo l’imbarazzo della scelta: là fuori è pieno di cantautorucoli col chitarrino scassato.
Il coraggio di una proposta alternativa, cosa rarissima di questi tempi, non penso sia di per sé una qualità se si rivela priva di contenuti. Quali sono i tuoi? Cosa hai cercato in questi brani e cosa cerchi di scuotere nell’ascoltatore con le tue provocazioni?
Io trovo che il nostro album sia “più contenuti che confezione”. È chiaro che un messaggio estetico forte e in direzione opposta a quello dell’understatement generalizzato dell’underground italico rischi poi offuscare l’elemento strettamente musicale. Se nelle press release non si fosse battuto sulla questione estetica e se i photo shoot ce li avessero fatti quando andiamo in sala prove con le magliettazze bucate dei Sonic Youth e le camiciole a maniche corte io penso che il disco sarebbe stato recepito in maniera molto diversa anche da coloro che lo hanno stroncato (fortunatamente le recensioni negative sono state solo due su diverse decine – di cui una segnata da trascorsi personali negativi col redattore). Ma può accadere che il fruitore pecchi di ottusità o, meglio, che il “web-giornalista” musicale (l’ascoltatore spassionato e appassionato invece dice volentieri delle grandi verità) degli anni Dieci lo sia. Ogni giorno riceve un disco e lo ascolta mezza volta guardando le foto e leggendo le cartelle stampa. Dove lo trova il tempo e il modo per emozionarsi? Ecco, More Lovely and More Temperate è un disco che punta al cuore dell’ascoltatore. È la lacrima sul volto di Pierrot, è una grottesca parodia dell’impossibilità di stare al mondo, è un ghigno beffardo sul dramma dell’esistenza.
Il tuo è più un viaggio nel passato o nel futuro?
Direi proprio nel futuro, anche se gli scarsissimi mezzi economici a disposizione non mi hanno permesso di renderlo chiaro, costringendomi a una produzione non eccezionale. E la produzione, si sa, è la cosa che più d’ogni altra conferisce il senso del tempo alle opere d’arte. Il riferimento al passato è nel richiamo all’ardore e allo spirito di quei compositori che hanno fatto la storia della musica leggera, riferimento che comunque è tutt’altro che reazionario perché contiene invece una condanna asperrima all’immobilismo creativo che ha colpito le arti e in particolare la musica in Italia. Esecro il concetto di “nostalgia”, ciò a cui mi richiamo è l’ardimento sperimentatore che ha veicolato i momenti più memorabili della storia del rock. Adesso stiamo vivendo questa inquietante era glaciale, figlia della prevaricazione del concetto (un concetto spesso dominato da un’estetica provinciale e perdente) sulla sostanza artistica e che ha portato alla morte dei generi musicali. More Lovely and More Temperate è anche la fotografia di ciò. È un invito disperato a voltare pagina. Tuffatevi nel suo mondo: non vi lascerà indifferenti.
Il tuo disco è stato prodotto da Beatrice Antolini, un’altra artista molto eclettica ed esuberante, di ampissime vedute. Com’è stato il lavoro al suo fianco? Cosa ha portato in More lovely and more temperate?
Beatrice, così come Daniele Calandra di SRI Productions, si sono inseriti e hanno deciso di produrre il disco a registrazioni concluse. Quindi nell’artistico non sono entrati. Hanno permesso però all’album di veder luce e attualmente svolgono un ruolo manageriale importantissimo e che mi dà tantissima forza ogni giorno. Con loro mi sento quotidianamente e su di loro scarico tutte le mie soddisfazioni, perplessità, delusioni. Sono delle persone speciali, oltre che dei talent scout eccezionali. Aspettatevi grandi cose da SRI perché Johann Sebastian Punk è solo l’inizio.
Per ultima cosa ti chiedo di indicarci cinque brani senza i quali Johann Sebastian Punk forse non esisterebbe. Un modo per capire cosa si nasconde nel tuo background o per ritrovarci ancor di più ad annaspare nella tua autoironia. Vai! Siamo pronti.
Difficilissimo! Vado così a sentimento:
France Gall – Poupée de cire, poupée de son: pruriginosa e musicalmente inarrivabile. Serge Gainsbourg è una figura che amo e alle cui intuizioni JSP deve parecchio.
Split Enz – My Mistake: straordinaria band neozelandese purtroppo poco nota in Italia. Il mio consiglio è di andarvi a recuperare l’intera discografia. Questo è un brano teatrale e giocoso, ma in cui la componente estetica molto forte è innanzitutto messa al servizio della bontà della musica. Ovvero la stessa logica alla base di molte delle mie canzoni.
The Only Ones – Another girl, another planet: non può mancare un inno punk! Ed eccovi allora il mio preferito in assoluto. Il dramma dell’eroina narrato con fierezza. Chitarroni spavaldi e una voce malata che pare stentare a farcela. Ha una melodia che mi dilania le budella ogni volta.
David Bowie – Rock’n’roll suicide: il manifesto dell’estetica e della filosofia di vita che Johann Sebastian Punk ha fatto, con le dovute correzioni, propria.
Milton Nascimento & Lô Borges – Um girassol da cor do seu cabelo: e in conclusione non poteva mancare, essendo io un amante della MPB, un pezzo brasiliano. Ho scelto questo capolavoro tratto dal leggendario Clube da Esquina. Antonio Carlos Jobim, che considero una sorta di divinità, sostenne che la componente più forte della bellezza fosse la “tristezza”. Questa canzone esprime questo concetto in maniera impeccabile. Concetto che è alla base del discorso artistico del progetto Johann Sebastian Punk.
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Jesus Crust Baked – video