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“C’era una volta un matto, e questo è un fatto”: intervista a Francobeat

inte_Francobeat_IMG1_201410Franco Naddei, in arte FrancoBeat, è un musicista cantastorie assolutamente unico ed incredibile. La sua creatività si serve delle enormi possibilità offerte dalla bellezza abbandonata che lui reinventa, colorandone i bordi e solleticandone le forme. Dopo averci permesso di fantasticare con la poetica di Gianni Rodari, il suo nuovo lavoro ha veramente toccato con mano la follia. In questa chiacchierata via email Franco non perde l’occasione di raccontarci con entusiasmo del suo lavoro con “i matti” de Le Radici.

Sono molto felice di poter parlare con te di Radici. Spero non ti offenderai se “alla musica” ci arriveremo solo più tardi. Prima di tutto voglio chiederti di quell’incontro dove ti è stato detto che “sei abbastanza fuori” per lavorare con i matti. Com’è andata? La tua reazione qual è stata?
Sempre felice di parlare de Le Radici, ed è giusto introdurre i veri protagonisti di questa storia e di raccontare come dei matti si siano trovati a far canzoni. Quella sera suonavo in un posto molto suggestivo, l’ex bottega di un fabbro. Lì un amico ogni tanto organizza dei secret show e io ho accattato di buon grado di portare il live di Mondo fantastico, il mio disco precedente coi testi di Gianni Rodari. Caso volle che una delle organizzatrici lavorasse in questa struttura residenziale per disabili mentali, Le Radici. Non avrei mai immaginato che questo incontro condizionasse i miei piani per il futuro!
Di solito durante i concerti io parlo molto a ruota libera. Mi scopro sempre moltissimo sul palco, e in quel contesto quasi famigliare ero davvero a mio agio. Ho fatto quindi il mio solito concerto/chiacchierata, toccando temi a me cari, primo fra tutti la libertà nelle sue svariate forme. Liberi di sognare, di usare parole inventate, di creare mondi fantastici, di giocare. Ecco il gioco è l’elemento chiave con cui l’arte, secondo me, deve essere sempre correlata in qualche modo. Credo che se fossi andato là a far un concerto di cover dei Joy Division questa cosa non mi sarebbe successa, ecco!
Quando Elisa (Zerbini, una delle operatrici de Le Radici) mi parlò era sorridente ed oltremodo entusiasta nel propormi questa cosa. Fu molto vaga, mi disse che avevano scritto delle cose e che sarebbe stato bello metterle in musica. A me si sono subito illuminati gli occhi proprio perché intravedevo la possibilità di giocare con un materiale inedito ed estremamente interessante. La fantasia che sfiora i confini della follia. Chiaramente nella mia testa pregustavo già l’idea di trattare quel materiale nella maniera più naturale, come testi “veri” di “grandi autori” nel pieno della filosofia del “pop da biblioteca”, il genere che fa francobeat.

Come è proseguito il lavoro? Hai visitato la residenza Le Radici: puoi descrivercela?
La prima fase è stata di conoscenza. Mi sono fatto mandare subito un po’ di materiale, e appena ho cominciato a leggere sono rimasto sbalordito ed ho insistito per avere un incontro al più presto. Di fatto l’idea nasceva per una festa che fanno a Le Radici tutti gli anni in cui i parenti vanno in visita e passano la giornata nel giardino antistante la residenza. Il posto è molto carino. La struttura è inserita in una specie di piccola rocca medioevale con tanto di porta ad arco all’ingresso. Fuori dalle mura c’è il giardino dove avevano alloggiato il palco e lo spazio per mangiare fuori tutti insieme. Io sarei dovuto andare a presentare questi primi esperimenti proprio in quella festa e pensavo di prepararmi 4/5 pezzi facili che potessero cantare anche gli ospiti della residenza (i matti, da ora li chiamerò affettuosamente così, definizione che si son dati loro stessi in un testo contenuto nel disco!).

Quando hai capito che veramente si sarebbe potuto lavorare insieme e che ne sarebbe venuto fuori un disco?
Ah, subito! Non mi sono mai spaventato davanti a nessuna proposta artistica di nessun genere. Per me si può fare tutto, forse credo di essere come John Cage! La lampadina si è accesa immediatamente. Dovevo solo capire come fare una operazione “pulita”. Non volevo che ci fosse il sospetto di essere io a sfruttare i matti, ma l’esatto contrario. Sarei dovuto stare attento a star lontano da effetti legati alla compassione od allo sfruttamento del disagio.

Come sono avvenuti gli incontri? Come sei stato accolto dagli ospiti della residenza Le Radici? È stato necessario un percorso per inserirti nel “loro mondo”?
In realtà è stato tutto piuttosto semplice. Gli operatori avevano preparato i matti al fatto che i loro scritti si sarebbero “magicamente” tramutati in canzoni. Io avevo impostato i primi brani e glieli avevo mandati per ascoltarli ed impararli nei limiti del possibile. Nella sala dove fanno le loro attività abbiamo fatto le prove come una vera band! Ho suonato e cantato i pezzi con loro nella modalità “da spiaggia”, ovvero chitarra e voce senza tanti orpelli. I primissimi pezzi, e penso soprattutto a Carmencita, erano davvero facili e da subito per me è stata una sfida. Non è stato semplice immaginare melodie che potessero essere cantate da chiunque. Era come pretendere di sapere scrivere pezzi da alta classifica, quelli che poi cantano tutti sotto la doccia! E’ lì che forse è nata la magia. Il mio compito iniziale era di coinvolgerli il più possibile, e di metterli nelle condizioni di sentirsi i veri protagonisti. Quindi niente paturnie da musicista alternative-indie e consimili.
Dopo il primo incontro ogni volta che arrivavo mi facevano delle gran feste, come gli amiconi che non si vedono da tempo. L’immagine di qualcuno che si alza dal suo torpore farmaceutico, sprofondato nella poltrona in chissà quali pensieri, e mi viene incontro sorridente per salutarmi, stringermi la mano e chiedermi come va… mi ha fatto sentire bene, utile. Stavo facendo qualcosa per loro, quello spunto di vitalità giustificava tutto il lavoro che poi effettivamente c’è voluto per concretizzarlo.
Poi finite le prove ci si andava a fumare una sigaretta fuori, con chiacchiere assurde e divertenti, con qualche non fumatore che ogni tanto faceva capolino dalla porta per partecipare al “momento da bar” innestando altri deliri in conversazioni già surreali in corso.

Ascoltando il disco sembra proprio di assistere al racconto di storie da un mondo parallelo. Una realtà deformata ma non meno vera. Cosa hai scoperto in quel “loro mondo”?
Difficile dare una definizione al “loro mondo”. Quello che so è che sono persone che non sono nate con handicap mentali (credo solo pochi di loro siano nati con difficoltà), ma sono stati portati alla follia dalla vita stessa. Io non sono uno psichiatra, ma ho potuto osservare, ed ascoltare. Ho chiesto agli operatori di registrare le voci dei matti, di provare a farli giocare coi suoni delle parole. Mi sono ascoltato ore di dialoghi e soliloqui di varia natura e specie. Alcune di queste registrazioni le ho inserite nel disco proprio per renderli ancora più presenti. Ad esempio, mentre ascoltavo i tentativi registrati, ho sentito una ospite che alla richiesta di dire una qualche parola “sonora/strana” ha ripetuto qualche volta una parola che suonava “pissarlò”. Io ingenuamente pensavo fosse inventata, o una storpiatura di pipì o cose del genere. Qualche giorno dopo ho scoperto che un pittore francese che si chiamava Camille Pissarro… e la persona in questione era un’insegnate di storia dell’arte. Quel frammento di vita passata, di una vita sana e normale, era emerso per associazione di idee, e mi ha colpito molto il fatto che lo avesse tirato fuori da qualche angolo remoto del suo cervello per rispondere alla richiesta di una parola “strana” e “sonora”.
Ecco, mi chiedi del “loro mondo”: il loro mondo è come il nostro, ma è tutto incasinato e fuori controllo.

inte_Francobeat_IMG2_201410Oltre al disco, ovviamente, a te cosa è rimasto di questa esperienza?
Forse alcune cose le ho già espresse. Se penso che mi è capitato di incontrare una struttura “qualsiasi”, ce ne saranno centinaia di simili, immagino a quanta poesia sommersa ci sia in giro per il mondo. Sono convinto che scrivere testi di canzoni sia una cosa sacra. La possibilità di cantare, quindi fare in qualche modo mie parole altrui, mi lascia sempre qualcosa di nuovo ed inaspettato dentro. Prima Rodari, ed ora i matti. Mi hanno fatto cantare frasi, parole che a me non sarebbero mai venute in mente. Coi matti il rapporto è stato anche fisico, nel senso che ci conosciamo di persona, ci siamo frequentati, ed anche nei testi si trovano tracce di questo scambio parole/musica tanto da sembrare a tratti un diario di questo percorso fatto insieme. Difficilmente avrei potuto scrivere “Caro amico Franco, ti offriamo un vin santo, se ci aiuti a trasformare in canzoncelle, tutte queste note belle”! Dopo questo disco sentirò ancor di più l’esigenza di semplificare, di lasciare spazio nella musica e di far posto alla parola come unico mezzo per raccontare di noi, in qualsiasi modo siamo fatti. Belli e brutti. La sincerità, la spontaneità, la verità (ancora prima dell’urgenza) nelle canzoni stanno per me diventando un obiettivo di ricerca primario in questi tempi dove ne sento poca in giro. Sarà l’età.

Durante lo sviluppo di questo progetto ti sei mai sentito in imbarazzo nell’approccio a queste persone con difficoltà?
Sinceramente no. Io ho fatto l’obiettore di coscienza e lavoravo in una struttura con disabili di varia natura. Non era la prima volta che avevo un rapporto con questo tipo di persone. In generale mi sono sempre posto, sia in passato che coi miei matti de Le Radici, in maniera “normale”. Chiaramente il grosso del lavoro è stato fatto a distanza. Loro hanno scritto in collettiva e lo hanno fatto quando la situazione era tranquilla. Non sempre ci sono state le condizioni per poter fare questo tipo di attività: il disagio tra loro c’è e si fa sentire, perchè se uno ha una crisi poi si turba tutto il fragile equilibrio interno. Io mi facevo vedere ogni tanto per far sentire loro i pezzi nuovi, e appena avevano dei testi me li mandavano via mail.
La cosa divertente è stata quando mi sono presentato con le mie “macchine elettroniche”, così definite da una ospite de Le Radici. Ho lavorato in tempo reale col suono delle loro voci, storpiandole, manipolandole e trasformandole in diretta. Per un attimo ho pensato che magari si sarebbero potuti offendere o sentire a disagio. Invece si sono divertiti tantissimo e hanno cominciato a cantare di tutto! L’idea stessa dei tre piccoli frammenti sonori contenuti nel disco (poi assemblati e ricomposti da Valeria Caputo che si intende di elettronica) è venuta da loro. Una comincia a dire “questa è la mia voce”, e da lì abbiamo cominciato a giocare con questa cosa, il tutto mentre facevo loop al volo e suonavo le loro voci. Un momento di musica contemporanea davvero involontaria.
Posso solo immaginare la fatica che hanno fatto gli operatori de Le Radici per farli scrivere. Io non volevo toccare neanche una virgola per cui ho aspettato che fossero “ispirati” e ho rispettato ogni singola parola. Nei testi non ci sono mai stati dei ritornelli veri e propri, e mi sono limitato a ripete magari più volte le frasi “luminose”, quelle che davano la chiave di lettura al resto del testo o che semplicemente erano forti, emozionanti. Non ho provato imbarazzo neanche nel cantare la parola “clistere”, per esempio. Il testo in cui è contenuta è una specie di preghiera a che “cambino le cose”. Quella parola scura, forte, usata lì in mezzo ti mette in guardia dal fatto che la speranza è fragile e passa da una rassegnata sofferenza, ma c’è.

Arrivando alla musica: dal tuo punto di vista cosa è cambiato nel processo creativo?
Come detto ho iniziato tutto con l’idea di fare qualcosa di estremamente semplice e diretto. Sono sempre partito dai testi e passavo molto tempo a leggerli immaginandone il suono. Provavo a cantare cose a caso, fino a trovare degli accordi. A me sarebbe piaciuto molto comporre insieme a loro, ma era davvero impossibile. Mi son lasciato guidare dai testi, e tutto è stato estremamente semplice e naturale. Non avevo mire di comparire con chissà quali trovate di arrangiamenti o sequenze mirabolanti di accordi. Mi interessava che il testo scorresse e si illuminasse grazie alla musica, e che l’unione fra le due risultasse come scritte di getto insieme. Di fatto è stato così.

Le collaborazioni musicali (musica e canto) come sono nate? Meri esecutori di qualcosa già delineato precedentemente o c’è stata complicità creativa?
Gli ospiti del disco son venuti a vivere la stessa atmosfera che ho vissuto io nello scrivere i brani da solo. Niente è stato preparato prima. Ero curioso di vedere cosa sarebbe successo a condividere questo processo creativo con altri, curioso di sapere se solo a me era venuto tutto in maniera così naturale. Inutile dire che è successo esattamente la stessa cosa a tutti i coinvolti. Il testo ad un certo punto ti prende per mano e tu sei quasi costretto a lasciare che la cosa migliore fosse la prima che ti è venuta in mente. Così è successo con Giacomo Toni e Pieralberto dei Santo barbaro per Io ero bellissima, e Camminare con Giuseppe Righini ed il Moro. Coi Sacri Cuori è stato un pochino diverso, avevo dato loro una traccia che poi hanno liberamente interpretato ed a cui si è aggiunto John De Leo che mi ha spostato a gamba tesa un pezzo di brano per metterlo all’inizio. Insomma ho chiamato gli amici e le persone che ho frequentato in questo ultimo periodo e che volevo fare incontrare e conoscere fra loro. Complicità totale che viene anche dalla frequentazione ed intesa che ho con tutti loro coi quali ho anche condiviso spesso il palco.

Il palco, appunto: porterai questi brani dal vivo? Come sarà strutturato il live?
Certo che sì! Questa volta con una band. Con me ci saranno Silvia Valtieri al piano, Daniele Marzi alla batteria, Denis Valentini al basso e percussioni. Faremo i pezzi di Radici e qualche brano degli altri dischi. Però credo parlerò molto meno, non ho molto da dire sui testi di Radici se non quello che è già contenuto al loro interno. Inizieremo una specie di tour qui dalle nostre parti, in romagna, fino allla fine dell’anno. Poi si spera di invadere l’Italia intera!

Il tuo essere “libero” è anche un “essere al servizio”. Nel libretto dell’album è riportata una tua frase: “Nel mondo della musica spesso chi scrive si arroga il diritto alla poesia, a dare forma al bello. Gli scritti degli ospiti de Le Radici sono poetici e belli senza volerlo, e quindi secondo me, molto più belli e molto più poetici.”. Trovo che questa sia una grande verità che indica chiaramente un tuo modus-operandi davvero unico. Trovare bellezze inconsapevoli, renderle visibili. È così?
Credo di essere affascinato da ciò che sembra lasciato ai bordi… o dimenticato… o di cui semplicemente non si ha più notizia. La storia dei beat italiani in Vedo beat, le cui gesta di protesta poetica e pacifica ho conosciuto lavorando al disco, Rodari (Mondo Fantastico) che dopo tutto negli ultimi anni non credo sia nemmeno più fatto a scuola come ai miei tempi, ed infine la poesia stralunata dei matti. Nel fare un disco rimango sempre invischiato in letture, incontri e scoperte che mi fanno bene. Nei concerti dico spesso che io mi sento un mezzo, non un fine. Non ho bisogno di ribadire il mio ego ma di fare da megafono a storie, parole, suoni perché se fanno stare bene me mentre le canto spero facciano lo stesso effetto a chi le ascolta. Non ce la faccio proprio a pensare alla musica come puro intrattenimento, lo diventa nel momento in cui cerco di fare cose che possano abbracciare tante persone, di gusti e vedute diverse. Chiedo sempre un minimo scarto di attenzione per ascoltare quello che faccio, e lo faccio perché vorrei davvero condividere quello che ho scoperto per me.
Non è una gran strategia di marketing, ma credo che mio figlio quando si troverà in mano i dischi del babbo tra 20 anni sarà orgoglioso di me.

Il progetto è durato due anni. Sono certo però che non sei stato occupato solo in questo! Cos’altro hai fatto e cosa bolle in pentola per FrancoBeat?
Ne ho fatte davvero tante, è vero! Ho lavorato ad alcuni dischi di amici (Moro & the Silent devolution per esempio) e portato avanti i Santo barbaro di Pieralberto Valli con cui siamo al terzo disco fatto insieme. Del 2011 infatti è Navi, e il 29 novembre uscirà Geografie di un corpo per la Dinotte records. Poi ho sonorizzato lo spettacolo teatrale The Dead della compagnia di teatro contemporaneo “Città di Ebla”, con cui ho avuto il piacere di fare repliche in tutta Italia e all’estero. Ho partecipato anche alla realizzazione del nuovo disco di John De Leo che è uscito pochi giorni fa, Il grande Abarasse per Carosello. Ultimamente sono anche in combutta con Giacomo Toni, un promettente cantautore nostrano con cui ho fatto molti concerti e col quale sto lavorando al nuovo lavoro. Per tenere allenata la mia manualità elettronica dal vivo ho anche dato vita ad un solo elettronico dal nome “Except the cat” con cui mi diverto a fare elettronica improvvisata rigorosamente senza computer, e col quale ho avuto la fortuna di suonare con la grande voce di Nico Note (Nicoletta Magalotti) e la chitarra di Alfredo Nuti dal Portone (Jang Senato ed altri). Ce ne sarebbero altre, ma dimmi che non c’è più spazio!
In realtà spero di fare un disco con testi scritti da me presto, probabilmente cambierò identità per farlo, vedremo.

Radici – video teaser

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