Chiusa la preziosa parentesi con David Byrne, che ha prodotto l’interessante album Love this giant (2012), quasi un concept sulla musica per strumenti a fiato, seguito da un impegnativo tour mondiale (dal settembre 2012 al successivo), Annie Clark torna ad incidere un album da solista, il quarto in sette anni. Pur avendolo descritto come un ‘party record you could play at a funeral’, Annie abbandona qui certe cupe foschie che punteggiavano il precedente Strange mercy (2011), scegliendo un titolo eponimo che, ispirato dalle parole di Miles Davis ‘Sometimes you have to play a long time to be able to play like yourself’, afferma la sua definitiva trasformazione in St. Vincent: alter ego che incarna la sua multiforme essenza di compositrice, cantante, chitarrista, polistrumentista e insieme di animale da palcoscenico brillante, teatrale, estroverso, confidenziale, elegante e folle.
Se Actor (2009) era interamente scaturito da composizioni al computer e Strange mercy vedeva il ritorno ad un approccio ‘organico’, qui St. Vincent rimescola di nuovo le carte: l’intero disco è suonato con strumenti tradizionali, specie le sezioni ritmiche, ma ogni nota, anche grazie al fondamentale contributo del produttore John Congleton, è stata processata a tal punto da apparire sintetica, digitale, differente, per ottenere, nelle parole della stessa Clark, ‘the feel of a human, but the sound of a machine’. L’unica eccezione è nella naturalissima voce, mentre chitarre e tastiere, che peraltro interpretano anche le parti di basso, si confondono volutamente in suono elettrificato e saturo in cui ogni nota è percepibile, ma allo stesso tempo indecifrabile.
E così si comincia con le pulsanti tastiere in levare di Rattlesnake, groove trascinante che sale frenetico fino all’assolo del finale. Un solo frippiano, che non sarebbe dispiaciuto a Sly Stone, tutto giocato su una corda sola, pur utilizzando ampi intervalli, per accrescere la sensazione di un serpente strisciante che, come recita il testo, insegue la nuda St. Vincent nel deserto. Birds in reverse è una divertente funky-dance, che omaggia i B-52’s, ma è anche un campionario del variegato stile chitarristico di St. Vincent che alterna in fluide sequenze accordi ritmici distorti, riff all’unisono con la voce, frasi grevi avvitate sulle corde basse, e nella coda robotica da nevrosi ossessiva intesse con l’acido ben quattro chitarre sopraincise: un riuscito tentativo, come da intenzioni dichiarate, di allontanarsi dal condizionamento ‘muscolare’ dell’idioma pentatonico del Pantheon del rock. E infatti anche nella lenta Prince Johnny un canto di una purezza lirica da lacrime copiose scorre su atmosfere blues che blues non sono. Huey Newton racconta di un allucinato incontro con il defunto leader del Black Panther Party in una camera d’albergo scandinava, concepito in stato febbrile sotto l’effetto di un’eccessiva dose di sonniferi Ambien. Un drumming marziale e un arpeggio ossessivo di tastiera e occasionali accordi di chitarra dissonanti, quasi scordati, sostengono un canto di naturalezza disarmante che sale fino alla dolcissima frase che chiude la prima parte del brano introducendo uno strumentale prog a due tastiere che potrebbe restare in loop per ore senza stancare. E invece va a sbattere dopo soli 30 secondi su un saturo e pesante riff hard in stile seventies, che regge l’ultima strofa su un tappeto di cori e tastiere visionari, ricordando la PFM che lacera la parte più immaginifica de Il banchetto con un intervento cacofonico di sintetizzatore alla Stravinskij.
Il trascinante funky con fiati sintetici di Digital witness è il momento che più rimanda all’esperienza con Byrne, seguito nella variegata trama dell’album dalla ballata romantica in lente cadenze di I prefer your love, giocata su lunghi pad e dosati interventi di chitarra pulita, minimale.
Ma il filo conduttore resta il groove, come provano le sferzate di chitarra distorta che si confondono col rullante in Regret, in cui pennate di acustica lasciate a riverberare marcano il morbido refrain, con una sinuosa linea di basso presa in prestito da Tony Levin, seppure eseguita al sintetizzatore. Qui le parti strumentali richiamano ora certe tirate ritmiche alla Pete Townshend ora divagazioni progressive con bassi contorti e tremuli organi psichedelici, alla ricerca di quel sound meccanico per cui si fatica a riconoscere una tastiera nell’acido tema in bending vibrante di Bring me your love, brano impreziosito da un ripetuto scioglilingua arabeggiante.
Psycopath, a metà tra new wave e ritmo shuffle, coi suoi coretti leggeri è l’emblema della spensieratezza gioiosa che anima la rinnovata veste di St. Vincent, mentre Every tear disappear col suo riff pulsato interrotto da tastiere soffianti è l’ultima follia dell’album, prima che tutto si acquieti in Severed cross fingers, ispirata dalla frase di Lorrie Moore ‘He thinks of severed, crossed fingers found perfectly survived in the wreckage of a local plane crash last year’.
La macabra immagine dello scrittore si tramuta in ardente canto di speranza, speranza che non si può non provare di fronte a un’opera di tale maestria.
Credits
Label: Loma Vista/ Republic – 2014
Line-up: Annie Clark – vocals, guitar
Homer Steinweiss (drums) – Bobby Sparks (Minimoog) – Daniel Mintseris (synthesizer, piano; harpsichord)
Ralph Carney (horns) – McKenzie Smith (drums) – Adam Pickrell (keyboards) – John Congleton (engineering) – Greg Calbi (mastering).
Tracklist:
- Rattlesnake
- Birth in Reverse
- Prince Johnny
- Huey Newton
- Digital Witness
- I Prefer Your Love
- Regret
- Bring Me Your Loves
- Psychopath
- Every Tear Disappears
- Severed Crossed Fingers
- Del Rio (Japanese bonus track)
Link: Sito Ufficiale