Il quarto album della carriera solista di Steven Wilson è ancora una volta qualcosa in più di un semplice disco. Siamo davanti ad un’opera d’arte multimediale nel senso più sinestetico possibile dove l’aspetto musicale si fonde con quello letterario e visuale che caratterizza il concept dell’album Hand. Cannot. Erase. Da una storia drammatica realmente accaduta dieci anni fa (il ritrovamento del cadavere di una donna inglese, Joyce Carol Vincent, nel proprio appartamento di Londra, dopo due anni che era deceduta) Steven Wilson sviluppa un personaggio virtuale analogo che con le sue riflessioni sull’innocenza dell’adolescenza, sulla perdita delle relazioni vere che si coltivano nella prima parte della vita, rappresenta il simbolo della solitudine e dell’isolamento in cui è piombato l’uomo di quest’età moderna, l’uomo della metropoli, l’uomo di internet e dei social network. Questo concept è stato tema d’ispirazione a 360 gradi per l’artista inglese. La musica dai differenti stili (l’anima prog-jazz che rompe gli argini e valica i confini di genere al servizio della narrazione del concept), l’artwork, un blog, il video ed i visual del liveshow sono tutti tasselli a comporre il mosaico perfetto che è Hand. Cannot. Erase. Abbiamo avuto ancora l’onore di incontrare questo talentuoso polistrumentista inglese per un’intervista che è stata occasione di riflessione sui nostri tempi malati e sull’importanza della musica quando è realizzata con spirito artistico e non con il solo puro intento d’intrattenimento.
Il tuo quarto album svela un concept ispirato alla vita di Joyce Carol Vincent. Quale particolare aspetto della sua vita hai voluto focalizzare in questo disco? Penso alla solitudine che si può provare in una metropoli e la velocità della vita quotidiana…
Il soggetto del mio concept è sicuramente ispirato alla vita di Joyce Carol Vincent, ma soprattutto è frutto di invenzione romanzesca. Il tema principale: diventare completamente invisibili nel cuore di una grande metropoli, essere isolati dal resto dell’umanità pur vivendo nel cuore di una grande città come Londra. Sono stato affascinato da questo aspetto ed in particolare mi sono interrogato su come sia possibile questa dinamica. Com’è possibile che una persona molto popolare tra amici e famiglia possa scomparire ad un tratto ed essere cancellata completamente pur essendo circondata da un milione di persone. Per questo motivo per me lei diventa il simbolo della vita in questo secolo, il simbolo di questa età tecnologica, di questa età di internet, di social-media dove l’individuo deliberatamente si isola, si disconnette dal resto del mondo che sta vivendo… e questo modo di agire è apparentemente senza motivazione… il modo di vivere nella grandi città è folle, terrificante, paranoico, confuso e totalmente avvolto dalla spirale di velocità dei tempi moderni.
C’è un collegamento tra la morte di Joyce Carol Vincent ed i protagonisti delle storie di fantasmi del precedente disco The raven that refused to sing?
Sicuramente ci sono dei temi che riaffiorano sempre nella creatività di un artista. In questo caso tra questi due album non è tanto il tema della morte ma la nostalgia per l’adolescenza perduta, per quella prima parte della vita di un uomo, per quell’innocenza che la caratterizza. Da ciò deriva la presa di coscienza di aver smarrito quella purezza e il pentimento per ciò che si è perso e si è diventato. Se ci pensi, questo tema era già presente anche in mie canzoni ben quindi anni fa. E’ un tema ricorrente nella mia scrittura.
Perchè il titolo Hand. Cannot. Erase.?
Una delle cose più particolari del realizzare un disco è dargli un titolo. Il primo approccio che può venire in mente è quello di fornire un titolo che faccia comprendere subito il soggetto del disco, un titolo didascalico, per intenderci. Per esempio nel mio caso avrei subito potuto sciogliere la pratica chiamando il disco “la solitudine nelle grandi metropoli” e sarebbe stato esplicativo di un solo aspetto seppur principale, infatti si parla anche di isolamento, internet, tecnologia, nostalgia per l’adolescenza e le relazioni… di tanti differenti temi… e quindi sarebbe stato un titolo poco efficace. Ho preferito un titolo ambiguo, misterioso che fosse aperto a più livelli d’interpretazione e che attirasse l’attenzione. Insomma, non c’è una risposta alla tua domanda… ma ti ho spiegato perché non c’è una risposta…
Questo è un disco meno jazz di The raven that refused to sing e più vicino alle atmosfere di Grace for Drowning. Quali sono le principali differenze tra il precedente disco e ques’ultimo?
Certamente c’è meno jazz rispetto al precedente album. Il sound di questo disco è stato molto ispirato dal concept che trattava. The raven that refused to sing era caratterizzato da un suono vintage anni settanta in chiave jazz-fusion perché anche le storie di fantasmi erano frutto di una fascinazione per qualcosa del passato. Hand. Cannot. Erase. tratta un tema legato a questo secolo e quindi il suono mi è stato suggerito da quello delle grosse città, quindi c’è una componente elettronica quasi industrial. Poi trattando la vita di una donna dall’adolescenza alla morte ho voluto toccare differenti stili musicali per interpretare queste differenti fasi della vita. Ma la maggiore differenza sta nella ricerca di un suono che fosse il più possibile immerso in questa età moderna.
In questo disco ci sono due nuovi strumenti musicali: la voce femminile ed il coro di ragazzi. Mi parli di questa nuova soluzione nel tuo universo musicale?
Mi piace cercare nuove sfide in ogni disco. Questo tipo di sfide mi porta sempre ad introdurre nuovi elementi musicali nella mia composizione. In questo caso, essendo tutto il lavoro ispirato alla vita di una donna finzione ispirata a Joyce Carol Vincent, la prima sfida era quella di scrivere in soggettiva femminile. Ed è stata veramente una mia grande sfida. Riuscito in questo, è stato logico ed automatico pensare di introdurre il cantato femminile di Ninet Tayeb in Routine ed il recitato sempre in femminile di Katherine Jenkins in Perfect Life. Se ci pensi, anche la voce di Leo Blair che si ode sempre nella parte centrale di Routine ha qualcosa di un soprano femminile, un qualcosa di femmineo e quindi di accordato al tema che ha ispirato il disco.
Quale canzone di questo disco ti stimola di più per la performance live?
Sono molto eccitato nel poter suonare live Routine perché è un brano ricco di picchi, molto dinamico e sono sicuro che il pubblico stia aspettando di essere coinvolto dalle diverse atmosfere di questo pezzo.
Possiamo parlare dell’artwork e del packaging. Noi sappiamo bene quanto tu ritenga importante questo aspetto artistico…
Penso che la musica sia arte e vada presentata come arte. Prima di tutto per me è un ritornare indietro nel tempo, quando scoprivo i primi album in vinile… a quel tempo il disco era anche packaging contente i testi ed un artwork come estensione della musica che ascoltavi. Inoltre io sono cresciuto amando non solo la musica ma anche il cinema e la letteratura e queste passioni mi sono rimaste anche se la mia professione è solo incentrata sulla musica. Diciamo che il concept di Hadn. Cannot. Erase. è stato perfetto per liberare la mia attitudine anche nella scrittura della finzione letteraria attraverso il blog del personaggio e le tracce scritte della sua vita, mi riferisco alle pagine di diario presenti nell’edizione deluxe, per non parlare della scelta delle fotografie, delle illustrazioni, dei filmati del liveshow e del video (con approccio di cortometraggio) di Perfect Life. Insomma per me un disco è un’opera multimediale, non dieci canzoni pop da vendere su internet. Per me è una sfida estetica a tutto tondo. E’ creare un pezzo d’arte dove si muovono sinergicamente tre aspetti: quello visuale, letterario e musicale.
L’’aspetto sinestetico dell’arte per te è prioritario…
Sì, penso che il cinema e la musica insieme siano tra lle esperienze artistiche più avvolgenti per un essere umano.
Cinque canzoni della tua vita che ti piacerebbe suggerire ad un amico…
E’ una domanda difficile. Dipende dall’amico e dipende in che occasione… se deve fare un viaggio, se è depresso e se è felice… congeliamola questa domanda per la prossima volta in cui ti chiederò più dettagli…
Ci sarà un nuovo album dei Porcupine Tree? Sul web questa notizia rimbalza parecchio…
Onestamente non ne sono sicuro. Non vorrei parlare di questo, perché per me è come tornare indietro nel tempo e ora sono proiettato in avanti. Sono molto soddisfatto della strada da solista. Ad ogni modo, lo stile dei Porcupine Tree è insito nel mio modo di comporre. Il mio progetto solista è un sorta di continuazione dei Porcupine Tree con la possibilità di evolvere in ogni disco perché posso coinvolgere differenti musicisti che forniscono nuove ideeo. La gente è legata a questa romantica e nostalgica idea della band Porcupine Tree, ma adesso vivono nel mio progetto solista, non c’è bisogno di tornare indietro.
C’è un disco che ti ha colpito recentemente. So che ascolti sempre molti dischi…
Sì, l’ultimo disco che mi ha colpito è The Summoner, lavoro di una band belga, i Kreng. E’ fantastico perché coniuga musica classica a musica elettronica e doom metal in un mix favoloso, carico di cambi di atmosfere dark. Impressionante!