Si presenta sola, Beatrice Antolini, nella sala del Ferro3.0 di Scafati, per la penultima tappa del Beatitour col quale ha portato in giro per la Penisola il recente EP Beatitude (La Tempesta). La postazione è essenziale con una disposizione triangolare degli strumenti, una vissuta tastiera Nord Piano 88 rossa e una spoglia e aggressiva batteria Steel Drum; sullo sfondo tre opere della scenografa Cartapaglia, cuori umani di cartapesta, grandi come palloni, contengono le sole luci di scena: rosse ai lati, bianca al centro (dalla finestra filtra debole la luce gialla dell’illuminazione stradale, contribuendo all’atmosfera soffusamente malinconica dell’ambiente che invero è all’opposto della musica eseguita). Sulle note immaginifiche di Modern lover, lanciate dal MacBook dal quale partono i numerosi sequencer che supportano l’esibizione, Beatrice raggiunge il centro della pedana e vi si inginocchia cercando la giusta concentrazione, simboleggiata sul finire del brano dall’accensione del cuore centrale, la cui luce diffonde un leggero chiarore intorno alla sua figura per la prima metà del breve set. Questa vede la polistrumentista marchigiana impegnata principalmente alla batteria, ad eccezione della rapidissima incursione robotica di Spiders are not insects, suonata in sincrono con una serie di basi programmate che completano gli arrangiamenti con gli altri strumenti, contrariamente a quanto avviene solitamente in questi casi, in cui è più facile affidare alle macchine le parti ritmiche.
La Steel drum chiaramente non è lo strumento principale di Beatrice, ma la scelta di eseguirne le parti dal vivo per accompagnarsi nel canto è assolutamente funzionale a quel “ritorno all’essenza, fuori dalle costrizioni mentali, dalla meccanicità”. E infatti l’energia quasi primordiale dei battiti, quella particolare sonorità degli strumenti a percussione che è propria dei live, scuote l’ascoltatore come una scossa tellurica ad ogni singolo colpo, a partire dall’essenziale ritmo cassa-rullante di Pinebrain che apre il set con foga glam, quasi danzereccia, che si propaga possente in Dromedarium e conferisce nuova veste alle armonie più articolate di Vertical love e Vibration 7. Finita la prima parte Beatrice spegne nuovamente la luce centrale e tutta la sala piomba in una rossa penombra, ma lei scherza col pubblico (“meglio no?”), come fa più volte tra un brano e l’altro con fresca e quasi imbarazzata cordialità, per poi lasciarsi completamente rapire dall’esecuzione della sua musica, offerta al pubblico come la propria essenza più profonda messa a nudo. In tal senso la versione di Planet solo voce e piano, padroneggiato con una disinvoltura che rivela la sua formazione classica, rappresenta il momento più toccante della serata, con la sua coda ipnotica di arpeggi in lievi dissonanze che rallentano su gravi note basse per chiudersi con guizzi allungati in un delicato fischio, switchando le manopole del Nord 88.
E dopo l’arioso ritmo di With love e le pulsanti evoluzioni di Piece of moon, nella misteriosa penombra dei cuori rossi alle sue spalle, Beatrice torna alla batteria per l’incedere torrido di DNA (embarassed face), nella cui parte centrale si alza in piedi per colpire con impetuoso slancio timpano, rullante, piatto, prima di chiudere il brano con l’acido solo di tastiera. Mentre la osservo in questo passaggio stagliarsi sui led colorati della tastiera che le rischiarano il viso non posso fare a meno di pensare al Capitano Bowman con indosso la sua tuta spaziale mentre disattiva il processore di HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio.
Ancora al piano, la sofferta delicatezza di Anyma L, incisa con la collaborazione di Fede Poggipollini, ci regala l’ultimo brano di misurata armonia, seguito da un finale al sapore di bollicine frizzanti sulle ardite ritmiche e le fantasiose quanto repentine trasformazioni di Funky show. Beatrice ringrazia e saluta tutti amabilmente mentre esce di scena. Peccato sia già finito.
Foto di Alessio Cuccaro