In Italia, e più precisamente ad Arezzo, sta emergendo un’onda di neo-pschedelia e brit folk senza precedenti che fa quasi il verso a quell’analogo movimento che negli ultimi anni ha visto brillare all’estero gruppi come i Tame Impala e i Temples. Noi abbiamo due band a cavalcare l’onda e sono i Sycamore Age e i Walden Waltz. Questi ultimi hanno all’attivo tante collaborazioni internazionali di grande rispetto, da Jack Petruzzelli (Rufus Wainwright, Fab Faux) a Jack Douglas (John Lennon). Il loro disco di debutto Eleven Sons è un gioiellino di coerenza tra diverse attitudini musicali che vanno dalla pschedelia al folk sedimentando nel weast rock.
A quale degli undici figli siete più legati e perché?
Non saprei, un buon padre non fa distinzioni, ma è indubbio che per quanto si sforzi, non potrà rimanere immune al legame con il primogenito, o al fascino del figlio più bello, non necessariamente il migliore, ma quello il cui charme supera di gran lunga quello del padre.
Direi My old Friend, perché è il primo lavoro iniziato insieme per il disco, nato almeno 3 anni fa da un’idea di Simone, e iniziato ad arrangiare nella mia casetta in campagna, molto prima di iniziare il disco vero e proprio. L’altro è proprio A and D. Il suo carattere mi ha sempre dato problemi nel corso dell’arrangiamento, non capivo mai se stessi facendo le scelte giuste (perché di questo si tratta quando arrangi un pezzo) per farlo crescere come desideravo, senza forzarne la natura. Adesso io faccio fatica a sentirlo e a suonarlo, per il tanto tempo dedicatogli, ma continua a stupirmi come il suo fascino non passi inosservato, come il suo significato continui a lasciare sospesi e al contempo a proprio agio.
Come è nata A and D?
Uscendo dalla metafora familiare, A & D è nata nel modo più folk che si possa immaginare, avevo varie parti di mandolino che sembravano incoerenti tra di loro, forse lo erano pure, mi trovavo in sala da un amico ed avevo il mandolino per fare delle sovraincisioni, poi dal niente, col microfono aperto per fare delle prove, iniziai a suonare tutte le parti di mandolino collegate tra loro, in un’unica take, dall’inizio alla fine, un flusso di coscienza che mi ha portato a dare una struttura involontaria al pezzo. Appena finito, E. Zoi, che stava registrando dalla sala regia, mi dice di andare a risentire il pezzo, e insieme notiamo che poteva essere un pezzo a sè, e funzionare con quella registrazione alla prima take. Credo non sia difficile accorgersi che non c’è click, la traccia aumenta e diminuisce velocità senza alcun rispetto per il tempo. Questo ha reso ancora più divertente e incasinata la seconda parte del lavoro: nel periodo di Natale ero in campagna a registrare e venne il nostro amico Francesco Chimenti ( Sycamore Age) a fare dei violoncelli, inizialmente il pezzo era tutto col mandolino, e si chiamava ‘’mandolino’’, ma dopo che sentii i suoi pizzicati che rallentavano sotto al mandolino ( Francesco è impazzito per farli imparando tutti i rallentamenti come se fossero composti volontariamente, incredibile) mi sembrò inutile tenere il mandolino nella parte iniziale e così togliendolo mi sono reso conto di quanto fosse bello sentire quei pizzicati con sotto la voce. Il titolo poi, abbastanza criptico, ha diversi significati. Il più interessante a mio parere è quello numerologico e filosofico. A è il numero 1 , D è il numero quattro, l’1 rappresenta l’idea semplice che contiene in sé l’idea complessa di tutti i numeri, è l’archetipo primo, rappresenta Dio al momento della creazione, nella sua solitudine, immerso nella potenza e pronto all’atto (per dirla alla Aristotele). 4 rappresenta invece il mondo, la completezza, il quadrato, nella numerologia esoterica il quattro rappresenta il mondo, la creazione di Dio, la completezza. Ma la cosa che li rende speciali, è la loro somma (A + D) = 5, il cinque rappresentabile con un quadrato e un punto nel centro, simboleggia l’uomo, creatura unica, individuale, frutto della creazione e del creato (1 + 4), e a sua volta scissa in due anime contrapposte (A pollineo – D ionisiaco) che ne danno una risultante magica, poetica, quanto incomprensibile e autodistruttiva.
Nel vostro sound albergano tre anime, quella del folk britannico, quella del rock della weast coast anni ’60-’70 e quella della neo-psichedelia contemporanea di band tipo Temples e Tame Impala. Cosa pensate a riguardo?
Ci piace, sono coordinate musicali molto precise, e al contempo eterogenee, farle coesistere non è semplice, la cosa di cui siamo più felici infatti è quella di essere riusciti a nascondere le diversità dei brani fino a rendere il tutto un disco coerente, perché le anime di partenza erano molto diverse e, come le frecce della copertina, tiravano in direzioni diverse, opposte, tanto da rendere spesso impossibile la coesistenza. In quel senso la scaletta del disco ha aiutato a rendere omogeneo il lavoro, perché pezzi come Tyger non potevano vivere accanto a quartetti d’archi e mandolini.
Il bello è stato vedere come tutto prendeva il suo posto una volta finito ed andava a comporre un puzzle coerente e non un collage di vecchio e nuovo. Se posso aggiungere, credo che la mescolanza di stili così diversi sia frutto del modo ‘giocoso’ in cui viviamo la composizione e l’arrangiamento, l’idea è quella di un bambino immerso nei giochi. Immaginando mio nipote in una camera piena di giochi diversi, vedo costruirsi immagini e storie incredibili dove dinosauri combattono con personaggi di fantasia, dove tutto si mescola fino a perdere di senso all’apparenza, pur avendo un grande senso per chi gioca. Ecco più o meno il processo creativo di questo disco è stato così, avevamo una sala giochi fatta di strumenti bellissimi, molti costruiti appositamente per noi da un grande liutaio, nostro caro amico Makassar, in parte frutto della sua mente folle, altri strumenti venivano dai miei viaggi, molti dal Marocco. Così quando ci trovavamo ad arrangiare i pezzi, qualunque fosse il loro stampo ( Neopsych- brit folk- west rock) il nostro approccio era quello di giocare con gli strumenti che avevamo intorno, senza paura di mettere oscillatori sotto a ballate acustiche o cumbus e strumenti etnici sotto a pezzi elettronici.
Ne è nato questo quadro, che non vorrei fosse ricordato come un semplice crossing over, ma come il tentativo di giocare il più possibile con la composizione, nella fase di arrangiamento, un approccio Surrealista al rock.
Avete realizzato un tour in USA che vi ha fatto guadagnare l’attenzione di produttori come Jack Petruzzelli (Rufus Wainwright, Fab Faux) e Jack Douglas (John Lennon). Come è stata quest’esperienza? Raccontateci qualche aneddoto…
Sono tanti gli aneddoti. Ogni volta che li racconto, ho come l’impressione che non succederà più niente del genere; anche se in futuro, e a breve, torneremo a suonare in tour fuori dall’Italia, quell’esperienza è stata unica perché racchiudeva in sè la follia di cinque 20enni (uno non era neanche 19enne) su un van carico di strumenti e non solo, alla deriva nella costa orientale degli Stati Uniti. E’ successo letteralmente di tutto, le stesse foto sono state più volte occultate, epurate per renderle visibili a parenti e amici. Stiamo cercando quà e là di raccontare delle storie perché ci chiedono insistentemente, ma sono solo la facciata ufficiale della versione ufficiosa. Sembra che esageri, ma quando ne parliamo con altri musicisti che fanno tour costantemente, finiamo sempre per lasciarli a bocca aperta. Ricordo fughe coi calzini per coprire la targa da Memphis, con Nicola Mondani (tromba Sycamore Age e membro honoris causa del nostro collettivo) che scappando fece un salto sulle rotaie di un treno che sconvolse il povero van. La polizia ci ha fatto compagnia per una buona metà del tour, con retate in mezzo alle strade boschive dell’Alabama, fari che illuminano a giorno, sceriffi buoni, e sceriffi cattivi. Date in locali storici ora distrutti da Katrina. Tempeste, tornado, campeggi deserti nel mezzo del West Virginia con orsi assassini. Laghi attraversati a nuoto mentre aprivano le dighe, viaggi cosmici persi nelle pianure del Mississipi. Serate trovate per caso in locali storici di Nashville, strade perse in mezzo al Tennesse, fughe inseguiti da pazzi coi fucili, per aver sbagliato strada ed essere fiiniti in casa di sconosciuti senza volerlo nel cuore della notte. Il van più volte ferito, che muore dopo l’ultima data. Poi siamo andati a Los Angeles. Viaggi in moto per spendere al meglio i soldi della data migliore, attraverso il deserto fino a Las Vegas, immersi davvero in paura e delirio, esattamente come nel film, ma storditi per di più anche dallo show psichedelico di Love del Cirque du Soleil. Persi nella città del gioco d’azzardo, ognuno nel suo personale viaggio, chi svegliandosi tra le palme dei casinò, chi come me in un Motel a 5 miglia dal centro di Vegas, senza sapere come c’ero arrivato. Abbiamo suonato al Wiskey a Gogo, un palco che ha visto nascere i Doors e calcato da tutti i gruppi di cui abbiamo i vinili. Macchine noleggiate e lasciate in frantumi di fronte al noleggio con le chiavi sotto il tappetino. Carte di credito bloccate all’ultimo secondo. Siamo finiti in casa di sconosciuti messicani, che poi si sono rivelati dei veri fratelli, nonché amici di radiofonici, quindi puntate in Radio di Los Angeles, la casa con Jacuzi in cima ad una collina di Los Angeles, senza soldi e immersi nelle guerre tra bande messicane, di cui probabilmente siamo anche stati fomentatori, essendo fortemente schierati, per ragioni territoriali, dalla parte dei rossi. Insomma, non vorrei sembrare esagerato, ma ci sto scrivendo sopra, non so cosa sarà, ma sento il bisogno di scriverlo, per esteso, uncut, per poterne dare una visione d’insieme che mi permetta di giustificare tutto quello che non si può ancora dire. Mi piacerebbe scrivere un episodio in particolare, ma a tal proposito avendolo già fatto, preferirei lasciarvi il link al quale potete trovare la storia non romanzata del nostro Van, da prima di acquistarlo dall’Italia fino alla sua morte. Potete trovarlo in fondo a questa rocambolesca intervista con L’Alligatore!!!
Poi sono successe anche cose serie, come le registrazioni con Ron Nevison (Led Zeppelin-The Who) e il premio come miglior singolo al debutto ai 21st Los Angeles Music Awards, tanti concerti in locali incredibili, live in radio storiche di LA. Ma ciò che preferiamo ricordare è la pazzia.
Quanto è importante la performance live per voi?
Il live è come un rituale, che si consuma per uno scopo, e con una forma. Per questo stiamo selezionando in modo meticoloso le apparizioni che faremo, stiamo cercando di essere sempre in contesti che possano accogliere al meglio la nostra musica, perché il rituale ha bisogno del suo tempio. Non viviamo nell’ansia del presenzialismo, il rituale si compie quando è necessario, come la Derdeba, rituale Marocchino dal quale mi sono ispirato per comporre You’ll be home. Come per i dischi o per la forma mutevole del nostro collettivo, viviamo il nostro live in modo molto slegato dalle dinamiche commerciali, stiamo ricercando ambientazioni surreali dove svolgerlo, anfiteatri, boschi, magari di fronte al mare. Nell’arrangiamento dei pezzi inoltre c’è un approccio completamente diverso da quello del disco, i pezzi sono dilatati, ampliati, subiscono aggiunte di strofe o smembramenti di struttura, rimangono loro stessi ma si vestono in modo differente, nel rispetto dello scheletro armonico e della forma canzone, ma con un’attenzione maggiore alle dinamiche, in un approccio che tenta di essere più Wagneriano possibile, per quanto si possa fare con chitarre elettriche, strumenti etnici a corde, Synth e sezione ritmica di basso e batteria. Infine i cori giocano un fattore molto importante, nonché rendono molto più difficile il lavoro di arrangiamento, nel tentativo di tenerli più possibile come sono nel disco.
Come è stata scelta la cover dell’album?
Dobbiamo ringraziare due persone: Andrea Bianconi che ci ha lasciato il suo bellissimo lavoro Tunnel City 27, esposto a Huston per altro, al museo di Arte Contemporanea. L’altra persona è Stefano Santoni, che oltre ad aver avuto l’idea di utilizzare il lavoro di Bianconi, ha lavorato all’Artwork nel suo complesso, creando un packaging che ci darà grandi gioie anche quando sarà portato nella versione vinilica. L’idea è quella delle direzioni, le frecce rappresentano le scelte, le strade possibili e quelle prese, un insieme quasi informe di frecce e direzioni che apparentemente scollegate tra loro, quasi in contrasto, finiscono, in uno sguardo d’insieme per inscenare una forma astratta ma estetica, alla quale si potrebbero ascrivere molte forme reali e concrete: fiori, farfalle, cascate.
Cosa pensate di Spotify e di questa musica sempre più fluida?
La fruibilità gratuita della musica porta con sè conseguenze positive e negative, pregi e paradossi. Girerei il problema ad un livello più ampio. Credo che la musica sia solo uno dei tanti aspetti della realtà materiale finiti parzialmente inghiottiti dalla realtà virtuale. Che dire dei giornali. Degli acquisti. Della conoscenza, relegata a sintesi da Bignami su Wikipedia. L’effimera convinzione di conoscere solo perché l’oggetto della conoscenza è a portata di mano, come l’alienante idea che si possa far musica con un software e una tastiera senza poi saperla suonare con gli strumenti reali. La tecnologia, Internet, hanno dato grandi mezzi nelle mani di uomini già impigriti dal boom economico del ‘900. Il risultato è che alcune menti riescono a sfruttarli in modo positivo, i più ne rimangono schiacciati, molti lo utilizzano nel modo più dissennato, a tal punto che scaricare musica (o ascoltarla gratis), a confronto di quello che esiste in rete (mi riferisco anche a fenomeni come il deepweb) sembra proprio tra i mali minori. In questo senso non vedo molta differenza tra internet e un’arma da fuoco. Sono mezzi, in mano all’uomo possono essere soluzioni o creare problemi, e credo che solo la storia possa giudicare fenomeni così complessi, nell’arco di tempi storici molto vasti.
Cinque canzoni che sono state importanti per il vostro modo di comporre musica?
Siccome quest’album è composto a due teste sento il bisogno di rispondere separatamente:
Matteo:
I am the Walrus – The Beatles
War in Peace – Skip Spence
Also sprach Zarathustra, op. 30 – R. Strauss
Matilda Mother – Syd Barret (Pink Floyd)
Astonished Birds – Sycamore Age
Simone:
Little Red Riding Hood Hit the Road – Robert wyatt
The Rip – Portishead
Aria – Alan Sorrenti
Cirkus – King Crimson
See Emily Play – Pink Floyd