C’era un angolo di America qualche sera fa a Cesena. Un’America lontana dagli skylines luminosi e dai sensazionalismi. C’era un angolo di quell’America nostalgica, malinconica e sudata che ha permesso al blues di strappare cuore e pancia di chi lo ascolta.
Eravamo alla Rocca Malatestana di Cesena, qualche sera fa, per il quarto appuntamento di acieloaperto: una location da togliere il fiato. Per chi non fosse pratico della zona romagna la Rocca Malatestana è una fortezza e sorge alla sommità del Colle Garampo che sovrasta la città. Tutt’intorno camminamenti sovraelevati ed un parco. Immersi in quest’atmosfera immaginifica di tempi che furono due palchi: uno più piccolo (in collaborazione con Sidro Club) sul quale si alternano musicisti della Go Down Records, ed uno per le grandi occasioni, di quei palchi pronti ad accogliere personaggi di calibro internazionale, come Mark Lanegan appunto; tra i due palchi il torrione della rocca.
Sono le 19 quando il primo artista da il via alla serata: Conny Ochs, giovane songwriter dall’aspetto teutonico, con l’America nelle orecchie e nei capelli. Il suo è un cantautorato folk rock ruvido, solitario (il palco lo condivide solo con la sua acustica), vissuto e malinconico, che subito ci trasporta in atmosfere da route 66 e polvere fine.
Il ritmo è serrato; passa mezz’ora e a salire sul palco è Lu Silver, accompagnato con tastiera e chitarra da Silvio Pasqualini aka El Xicano; l’unplugged ben si sposa con le atmosfere profondamente blues e suthern del duo. Si respira America, si respira Leon Russel, Neil Young e tanto soul dall’accento romagnolo.
Alice Tambourine Lover, aka Alice Albertazzi e Gianfranco Romanelli, sanno bene cosa vuol dire trasmettere emozioni al pubblico: anche il loro è rock, basale, di matrice blues con sconfinamenti in retaggi psichedelici e folk. E’ sufficiente un tamburello, di cui Alice sembra essere una fida amica, una dobro virtuosa, e qualche altro fidato compagno di viaggio (ospite anche il Conny Ochs di cui prima) ad apportare elementi sonori aggiuntivi (piccole percussioni, voci ed ukulele). Il risultato è un insieme sonoro che mischia la profondità del blues insieme a venature astratte e splendidamente oniriche. Non molto coinvolgente ma sicuramente emozionante.
Gli ultimi ad esibirsi prima del main event sono i Mother Island; sei musicisti immersi in un’atmosfera psichedelica al 100%. Vicentini, ci regalano un mix che ci porta indietro di molti anni, ai Jefferson Aiplane, ai Velvet Underground, a Syd Barret. Con il loro sound completo da vera band riescono a catturare e trascinare il pubblico nei loro luoghi dell’anima.
Giusto il tempo di una birra nel bicchiere ecologico, riciclabile e cauzionato (ve ne avevamo già parlato nel primo live report della rassegna acieloaperto) e ci spostiamo tutti alle pendici del main stage. Il pubblico è variegato: nostalgici delle (poco) rimpiante camicie di flanella, giovani fan cresciuti con genitori grunge, amanti della musica suonata e vissuta dal potere salvifico. Già, perchè la musica, la sua musica, probabilmente al buon Lanegan ha salvato la vita un bel po’ di volte. Mark nasce come cantante degli Screaming Trees, band fondamentale per l’evoluzione del grunge, per poi trasformarsi in voce solista, una parentesi come voce aggiunta dei QOTSA, gli album con Isobel Campbell, con Greg Dulli, con i Soulsavers e decine di altre partecipazioni.
La crudeltà degli anni 90, la dipendenza da alcool e droghe: il corpo non mente. La voce neppure, fortunatamente. Il passo incerto, lo sguardo sempre basso, la voce ruvida, greve, un orco (buono) con gli occhiali da sole nonostante il palco estremamente buio.
Con lui una band di musicisti con la M maiuscola; Phanton Radio è il progetto che ci presentano, prodotto da Alain Johannes (QOTSA) che ha anche co-firmato alcuni brani.
C’è il cantautorato americano, c’è il blues, tutto immerso in un’atmosfera dark, scarnificata anche nell’immagine grazie alle pochissime luci di palco: i corpi sono sagome che si stagliano nel buio della rocca (poco dopo l’inizio dell’esibizione, perfino i fari che illuminano il torrione sono stati spenti).
Il fulcro dell’esibizione, comunque, a prescindere da tutto, ancora una volta è la voce profondissima di Mark. Immobile sul palco, l’asta del microfono è una stampella afferrata saldamente dalle mani tatuate. Una voce in cui, se fai attenzione, puoi vederci la sua anima tormentata, che ha attraversato mondi e generazioni che comuni mortali come i sottoscritti possono soltanto minimamente immaginare tramite le sue parole. Una voce graffiante e talmente profonda da ipnotizzare chi l’ascolta, facendo dimenticare l’andatura incerta e non proprio precisissima in qualche passaggio.
La scaletta del concerto non incontra grandi sorprese, Mark non è famoso per questo ma è una garanzia di passione e qualità. La band che lo accompagna, composta Jeff Fielder alla chitarra, Fred Lyenn al basso, Aldo Struyf alle tastiere, laptop, chitarra, e Jean Philippe De Gheest alla batteria, è un esempio di professionalità dove tutti si muovono senza primeggiare mettendo al centro la perfetta riuscita live di un brano. Quando tecnica ed emozione si incontrano, il risultato è magnifico, come la roboante The gravedigger’s song che ha aperto l’esibizione.
La scaletta, composta principalmente dai brani dell’ultimo album Phantom Radio, non ha scontentato anche i fan della prima ora. Non sono potute mancare la grandiosa Hit the city e la struggente Creeping Coastline of lights (rispettivamente da Bubblegum e I’ll take care of you).
Il ritmo incalzante ed elettronico di Dry iced (Blues Funeral) ha fatto vibrare le pietre della rocca, mentre Riot in my house ha fatto rovesciare qualche birra grazie al suono della chitarra di Jeff Fielder. La delicatezza delle ruvide mani di Mark accompagna quella Deepest Shade degli amici Twilight Singers resa da lui celebre nell’album di cover Imitations.
I bagliori sonori di Harborview Hospital sono come lucciole intermittenti nel buio, incantevoli e magici.
Conosciuto come personaggio schivo e solito ad una quasi totale mancanza di dialogo con il pubblico, Mark pare essere particolarmente a suo agio questa sera, con diversi ringraziamenti ed un “It’s a privilege, we thank you” rivolto al pubblico cesenate. Le note di un’altra eccezionale cover si diffondono nell’aria: Atmosphere dei Joy Division suonata dalla Mark Lanegan band è un fedele e rispettoso omaggio alla band di Ian Curtis.
Il live si conclude con Methamphetamine Blues e I am the wolf, tra gli applausi sinceri ricambiati dalla band sul palco.
E’ stata una serata emozionante questa alla Rocca Malatestana di Cesena; il cielo aperto sopra di noi, qualche stella che cade (è pur sempre metà agosto), ed una scorta di musica vera, di quella suonata, pensata e sentita che ci farà respirare per un po’ rendendoci più sopportabili i tormentoni estivi.
Rock’n’roll will never die. Ne siamo sempre più certi.
Report di Elena Panchetti in collaborazione con Emanuele Gessi.
Gallery fotografica di Emanuele Gessi