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I aubade – Elvis Perkins

recensione_ElvisPerkins-Iaubade_IMG_201509Sei anni dal precedente album e una lunga gestazione per un repertorio registrato in massima parte in solitudine nel suo appartamento, tra febbraio 2012 e dicembre 2013, con un 4 tracce che già basta a qualificare come vintage la terza prova di Elvis Perkins, in cui i rumori di fondo di un’incisione domestica vengono ostentati fin da subito (On rotation moses). Può suonare strano che a New York City si possa essere così poco metropolitani, ma in fondo lo stesso Dylan ha mosso i suoi primi passi proprio nel Village, e non si potrebbe accusare di passatismo né l’uno né l’altro. Sono dunque corretti i riferimenti a Devendra Banhart che si avanzano da più parti, lo sono perché i due musicisti condividono la stessa passione per un suono remoto, e remote sono le loro voci, nutrite delle stesse radici, dissetate alle stesse fonti.
Come dichiarato dallo stesso Perkins, il tema dominante dell’album è l’onda, in tutte le sue sfaccettature, dalle onde del mare alle frequenze radiofoniche, ai piccoli e grandi cambiamenti che ciclicamente, come l’albeggiare richiamato dal titolo o nel brano The passage of black gene, determinano il corso dell’esistenza. I came for fire è in tal senso paradigmatica: una canzone destrutturata in rivoli sfilacciati che si infrangono come la risacca sul bagnasciuga in una versione armoniosa del più allucinato Captain Beefheart. Frasi spezzate, onde più lievi, oscillazioni più intense e intermezzi strumentali fatti di brezze che soffiano via granelli di sabbia. Ma non serve coprirsi gli occhi, non colpiscono con violenza, si depositano piano e penetrano in profondita sotto la pelle. Una fiera di rumori analogici (It’s now or never loves), onde che diventano file audio (“waves and WAVs”), effetti elettronici, cori, brevissime frasi suonate con gli strumenti più disparati, creano un tappeto atmosferico su cui rotola la tranquilla voce sinusoidale di Perkins, spesso raddoppiata proprio da quegli inserti, offrendo la visione di un oceano che ha visto un tempo maestose tempeste e ritrova ora la sua forma più pura. Non mancano episodi più traditional come Eveline o Gasolina, che ci riportano dalle acque alle grandi pianure, nè momenti di opportuna ritmicità in AM e nella più quadrata Hogus Pogus, che si capovolge piacevolmente nella coda psichedelica, ma non modificano la direzione precisa dell’album.
Eppure, figlio di cotanto padre (l’attore Anthony Perkins), non riesco a non figurarmi una scena che forse gli risulterebbe sgradita (anzi leviamo il forse): una doccia insanguinata, un cadavere, un uomo esce ansimante sul patio di un motel, si siede sulla sua panca a dondolo, imbraccia la chitarra e intona le melodie dal sapore antico di cui è fatto I aubade.

Credits

Label: Mir Records – 2015

Line-up: Jocie Adams (Clarinet) – Paul Alexander (Double bass) – John Congleton Drums (Snare) – Aaron Copland (Orchestra) – Frank Fairfield (Fiddle) – Otto Hauser (Tambourine, Tibetan Bells, Trap Kit, Triangle, Wood Block) – Nick Kinsey Drums (Snare), Pandeiro (Talking Drum) – Dylan Languell (Saxophone) – Shana Levy (Voices) – Cornelia Livingston (Flute, Omnichord, Voices, Xylophone) – John Henry Livingston(Mini Moog) – Pamela Livingston (Flute, Penny Whistle, Voices) – London Symphony Orchestra – Elvis Perkins (Autoharp, Bass, Bells, Charango, Flute, Gourd, Guitar, Hand Drums, Hands, Harmonium, Harpsichord, Mini Moog, Mixing, Omnichord, Piano, Ronroco, Sitar, Toys, Trap Kit, Vibraphone, Voices, Xylophone, Zampona) – Mitchell Robe (Piano) – Larry Rott (Double Bass) – Mike Seifert (Cymbals) – Gus Seyffert (Bass, Cello) – McKenzie Smith (Trap Kit) – Becky Stark (Voices) – Johanna Warren (Flute) – Wilderness Travel Trailer (Oscillator)

Tracklist:

  1. On rotation moses
  2. My kind
  3. I came for fire
  4. & Eveline
  5. It’s now or never loves
  6. The passage of black gene
  7. AM
  8. Hogus Pogus
  9. Gasolina
  10. Accidental tourist (a white Huayno melody)
  11. All today
  12. My 2$
  13. Wheel in the morning

Link: Sito Ufficiale, Facebook

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