Un lavoro scritto in solitario tumulto, un flusso impetuoso, meditato e assorbito con la pazienza e la fermezza di un santo stilita. Un viaggio in un mondo sconosciuto e sommerso, ma non per questo estinto, né in decadenza. Per raccontarlo non basta un resoconto sommario. Ha bisogno di essere completamente compreso, di sedimentare nel sè più profondo, immateriale e gravido (“across the depths of this arid world / where you would yoke the waves / and lay a bed of shining pearls“). Cinque anni in tal senso potebbero anche essere pochi e Joanna la più svelta delle songwriters. Senza ripetizioni, ritorni, involuzioni, strutture (ché la ricerca e il trasporto non ne richiedono), ogni brano s’invola verso lande inesplorate, assieme a compagni di viaggio inattesi (“I want to go where the dew won’t dry / I want to go where the light won’t bend“). Divers, coloro che si immergono, nell’acqua o in un fluido genericamente inteso come l’aria, regno dei volatili che popolano da sempre il mondo di Joanna, tanto che il verso di un gufo e un riferimento testuale a un caprimulgo annunciano l’inizio e la chiusura dell’album.
C’è più d’una affinità tra questo e l’ultimo di Elvis Perkins; il mare, il tempo e una similare ricchezza e frammentarietà degli arrangiamenti curatissimi e multiformi (il solo missaggio ha richiesto 6 mesi di lavoro per 11 versioni) grazie alla nutrita tavolozza di strumenti, spesso inediti per Joanna, che sin dall’introduttiva Anecdotes, assumono un carattere visionario che concretizza ogni singolo suono: un flauto liquido è un moto ascensionale, una tastiera grumosa un mostro preistorico che ci scavalca con la sua mole pesante.
Il nome di un antico insediamento sull’isola di Manhattan, Saponikan, anteriore alla colonizzazione europea, diventa il pretesto per una passeggiata briosa per le strade di New York, luogo fisico ma anche metafora ricorrente della memoria e del tempo. L’iniziale spensieratezza del brano risale a The milk-eyed mender ma la consapevolezza vocale e la visione musicale tocca un livello di maturità cui arrivano in pochi, in un crescendo lirico a tre voci sostenuto da quasi elementari note di flauto e una varietà di suoni che definisce scenari come la china di un illustratore. E così nel folk d’albione di Leaving the city le variazioni sul tema offerte dalle Unthanks si elettrificano inaspettatamente come in un raro Alan Stivell, mentre in Goose eggs un rhodes duetta con le baroccherie di un harpsychord ma non è un brano progressive, giacché una chitarra “americana” ci riporta nel paesaggio arido di una sconfinata provincia, è progressive semmai la presenza strumentale che sembra per la prima volta prevalere sulle armonie vocali della Newsom. Anche le melodie che si ricollegano al precedente Have one on me, come Waltz of the 101st lightborne, si arricchisce di notazioni strumentali sempre diverse, un violino, un coro, una tastiera, una fisarmonica, un piano ormai protagonista, l’elenco completo degli interventi prenderebbe l’intera recensione e forse basterebbe quello a parlare dell’album. A volte, come nel finale di The things I say, voce e piano si sgretolano in una folata di vento spettrale che le risucchia in circuiti di vecchi transistor e nastri rovesciati, finché qualcuno stacca brutalmente la spina. E da quel silenzio si profila all’orizzonte la magia di Divers, la messa in opera di un sortilegio che emerge dalle trame oscure di un evento lacerante, una pozione da bere e assaporare incuranti delle conseguenze. Canto d’amore incompiuto, l’attesa rassegnata del suo emergere dalle profondità marine come una perla, bella e ingannevole (“I’ll hunt the pearl of death to the bottom of my life / and ever hold my breath / till I may be the diver’s wife“). E la voce giunge a vertici di corposa padronanza, specie nel registro basso che non si assocerebbe immediatamente al timbro di Joanna: un versatile, ancestrale e drammatico lirismo paragonabile solo al canto di Joni Mitchell. Pensando a lei un classico tema folk come Same old man si trasforma in materia nuova, plasmata con le inquietanti note basse di un moog che scartano improvvise tra le pale rotanti di una guerra incombente. Un’atmosfera che ritorna in certi passaggi stridenti dei sintetizzatori che ricordano il Walter Carlos di Switched-on Bach, e la fantascienza angosciosa di Arancia Meccanica, in You will not take my heart alive, avvolta negli incantesimi metallici di una polverosa alchimia sommersa. Le vertigini di una rampa che sale mentre cade riecheggiano nei guizzi solari di A pin-light bent, mentre la tensione di due accordi, due sole note, conduce alla conclusiva Time, as a symptom. Qui una batteria mai sentita nei dischi di Joanna (chissà se è per questo che viene comunque tenuta in sordina in fase di missaggio), sommersa da un proliferare di voci sovrincise tra gli squilli epici dell’Orchestra Filarmonica di Praga (arrangiata da Dave Longstreth dei Dirty Projectors’), sostiene, quasi come la “macchina del sole calante” in Space Oddity (“White star, white ship—Nightjar, transmit: transcend!”), il finale di un album prossimo al capolavoro.
Credits
Label: Drag City – 2015
Line-up: Joanna Newsom (Harp, Vocals, Celeste, Clavichord, Electric Harpsichord, Fender Rhodes, Guitar, Juno, Marxophone, Mellotron, Mini Moog, Organ, Piano, Wurlitzer) – Hideaki Aomori (Clarinet, Clarinet Bass) – Kevin Barker (Banjo, Electric Guitar) – Dan Cantrell (Hammond B3, Keyboards, Musical Saw, Organ, Piano-Accordian) – City of Prague Orchestra – Logan Coale (Double Bass) – Ryan Francesconi (Baglama, Bouzouki, Guitar, Bass Guitar) – Clarice Jensen (Cello) – Rob Moose (Violin) – Neal Morgan (Drums) – David Nelson (Trombone) – Pete Newsom (Drums) – Ben Russell (Violin) – Nadia Sirota (Viola) – James Austin Smith (Horn) – Andy Strain (Trombone) – Matt Szemela (Violin)
Tracklist:
- Anecdotes
- Saponikan
- Leaving the city
- Goose eggs
- Waltz of the 101st lightborne
- The things I say
- Divers
- Same old man
- You will not take my heart alive
- A pin-light bent
- Time, as a symptom
Link: Sito Ufficiale, Facebook