Se ti è capitato di leggere le parole che ho scritto per parlare del tuo ultimo album, Flores (Urtovox / The Prisoners – 2015), forse ti ricorderai che ho definito l’album come un “amico”. La sensazione che ho vissuto è proprio quella perchè si è avvicinato a me con una confidenza unica, ma anche con rispetto.
Sperando di non abusare di questa confidenza, vorrei sfruttare l’occasione di poterti rivolgere alcune domande per fare una cosa che tanti demonizzano, ma che personalmente non ho mai trovato così grave: vorrei entrare in alcune canzoni, e se non proprio fino al punto di chiederti il significato, almeno indagare su alcuni personaggi, eventi, scenari.
(Foto di Francesco Italia). Ecco, vi presentiamo così la nostra intervista a Iacampo. Come una richiesta confidenziale.
Vorrei collocare Flores in uno spazio temporale: quando sono nate queste canzoni e quando hanno rivelato la loro essenza di “album”?
Le canzoni sono nate durante il tour di Valetudo, alcune questioni di vita ed artistiche non si erano ancora concluse e il canale era ancora aperto. Ho scritto di seguito, tutto naturale. Il disco si è chiuso quando ho scritto Ogni giorno ad ogni ora. Proprio a ridosso con la registrazione.
E’ un disco che parla molto di incontri, ma è anche frutto di incontri. Diversi musicisti al tuo fianco, e la produzione di Leziero Rescigno. Come sono avvenuti questi incontri?
Nicola Mestriner era con me negli Elle, mio compagno musicale da sempre. Enrico Milani è il violoncello che mi segue dalle registrazioni di Valetudo. Con Leziero sempre stimati, sempre sfiorati, poi è arrivata l’occasione. Daouda in tour, a Genova, mi ha aperto il concerto alla Claque con canzoni tradizionali del Burkina Faso, voce e ngoni. Paolo Lucchi, un inserimento di Leziero Rescigno. Il sax non è il suo “strumento”, lui produce tecno. Però ha fatto degli inserimenti da brivido. Ecco.
Citando Ogni giorno ad ogni ora, chi ti insegnò a cantare?
E’ la cosa che ho imparato a fare da solo, e che mi porta in giro per questa vita. Ascoltare, ascoltarsi. cercare la propria voce, attraverso parole che ti esprimono, aiuta.
Chi mi insegnò a cantare sono io stesso.
E invece chi ti insegnò a disegnare? Tutti i disegni presenti nel booklet, compresa la copertina, sono tue opere: sono nate insieme al disco o sono lavori precedenti?
Mio padre, inconsapevolmente. Lo guardavo scarabocchiare i fogli. Molto bravo. Secondo me poteva coltivare questo talento. Non ne ha mai fatto nulla. Solo scarabocchi.
Ritorno alle canzoni. In Nuovissimo bestiario veneto descrivi diversi personaggi in un modo molto particolare, ermetico ma forte. Sono persone reali alle quali ti sei ispirato?
No, solo macchiette, che però esprimono delle caratteristiche della società. Ma anche dei demoni “culturali” che ci portiamo dentro.
Nuovissimo bestiario veneto in qualche modo sembra ben affiancarsi al progetto Veneto Contemporaneo: una sorta di “censimento”, quasi una ricerca, per scoprire, diffondere ed unire. Perchè hai scelto anche questo ulteriore impegno?
Avevo del tempo. E poi da sempre ho cercato di unire. Veramente da sempre. Probabilmente anche per un tornaconto personale. Si sta bene in famiglia. Sono un solitario, ma credo nelle grandi famiglie, di tutti i tipi. Veneto Contemporaneo è un’associazione che si muove nella mia regione per far emergere, attraverso degli eventi e degli spettacoli, la rete virtuosa che si è venuta a creare diffusamente nel territorio. Di forte carattere interdisciplinare questa rete è secondo me la cosa più interessante della contemporaneità in questa regione. Anche per l’Italia penso ci sia una rete interessante. Ma non è “la rete”, non so se mi spiego.
“Marco, apri presto un varco e lascia un foro aperto per la cavalleria”. Io l’ho interpretata come un’esortazione rivolta a te stesso. Ci ho visto giusto? Trovo particolarmente affascinante l’idea dell’autore che canta a se stesso, che si vuole parlare, che si vuole tatuare sulla mente un concetto.
Perché quando si scrive si è in uno stato particolare, almeno io. Quasi meditativo. In cui parlo anche a me quando posso. Perché poi il tram tram ti porta di qua e di là.
L’hai beccata. E’ un esortazione a non mollare, a fare presto quello che devo fare che c’è un bel po’ di energia che deve passare. La cavalleria, è il nome dell’energia in questa canzone. La cavalleria passa sopra tutti poi.
Anche se il titolo fosse diverso penso che comunque non sarebbe difficile accostare quelle note all’immagine dell’acqua, i colori dell’alba, e un qualcosa che sa di lento rituale. Parlo di Pescatore perfetto: puoi parlarmi di questo brano?
E’ una sorta di commento musicale alla danza inconsapevole dei pescatori con canna.
Soprattutto quelli che pescano alla passata, o alla mosca. Con lenze leggere. C’è in quella scala discendente il movimento del pescatore, che si unisce a quello della lenza, che si appoggia sull’acqua. Il nome è tratto da un libro del 1600 inglese. The compleat Angler, di Isaak Walton. Non abbiamo traduzioni pubblicate in Italia. Sto cercando una casa editrice, se c’è qualcuno in ascolto… il libro è molto bello. Pieno di citazioni, storiche, letterarie, filosofiche etc.
Sono pescatore, anche se è più di un anno che non pesco.
Quando l’ho scritta pescavo e basta.
Il tempo sembra essere uno dei temi portanti dell’intero album. Lo scorrere, il guardare indietro e proiettarsi in avanti. Il tema del tempo sembra anche affiancarsi spesso al concetto di attesa, paziente ma dinamica attesa. Sbaglio?
Sono un capricorno, dicono che sia il segno del Tempo. Un concetto che mi affascina con cui ho un dialogo molto vivo. L’attesa diventa movimento e non è più attesa.
Il tempo si può ingannare anche se va rispettato. Il tempo è una cosa liquida, relativa.
L’orologio è una trappola. Lo sto imparando in questo periodo.
Posso chiederti chi è Sara? (L’effetto che fa). C’è uno stupore magnifico e molto intimo mentre osservi Sara, i suoi movimenti, le sue scelte.
Sara vuol dire principessa in arabo. E’ mia figlia, che non si chiama così. In questa canzone immagino la mia reazione quando sarà il momento delle sue scelte.
Ora ha solo 5 anni, e “non ha visto ancora niente di più bello, di un cannone nel cortile di un castello e dell’amor di sua maestà”.
Due due due è il brano che cattura maggiormente per il suo ritmo. Penso però che la bellezza di quel brano risieda soprattutto nella melodia nascosta: resta un passo indietro ma è fondamentale. In un qualche modo torna il concetto del “disco amico” di cui parlavo: le cose più importanti non hanno bisogno di esaltazione. Sono delicate e conoscono la loro posizione. Come autore e musicista, come si trova questa consapevolezza? E’ un equilibrio frutto di una spontanea attitudine o di una ricerca?
Che belle cose dici. Penso sia una questione di allenamento, osservazione continua, su se stessi e sull’ambiente. Sui movimenti della natura e dell’umanità. La consapevolezza passa per tanto lavoro. Il talento vale poco se non ci lavori sopra. C’è gente molto più talentuosa di me in giro. Io ci metto tanto tanto lavoro, soprattutto sulle parti più deboli. C’è anche una parte di coscienza fisica. Lavoro molto con il corpo nella mia musica, anzi, devo dire che tutto è cambiato quando ci si è messa di mezzo la danza, anche nel mio modo di cantare, suonare e comporre. In Africa non c’è tutta questa distinzione tra danza, musica e canto.
Avrai ricevuto tantissime parole su Flores: amici e familiari, musicisti e collaboratori, recensori, il tuo pubblico vecchio e nuovo. Ce ne sono alcune che ti hanno colpito più di altre? Quali sono quelle che hanno colto meglio l’essenza del tuo disco o quelle che magari ti hanno aperto ulteriori riflessioni?
I complimenti dei bambini. Tanti, meno romantici degli altri e più di pancia. Forse senza tante parole, ma con sorrisi e attaccamento. Proprio recentemente un bambino ha detto alla sua mamma dopo un live che quando mi sentiva cantare “sentiva un’eco dentro”. Mi commuovo se ci penso.