Persino dalla stessa band è stato definito un album di “rinascita”. L’omonimo album de Il Teatro degli Orrori, pubblicato in questo 2015, è caratterizzato da tre dettagli in particolare: una rinnovata irruenza nei testi, un’inaspettata apertura musicale, la forte presenza di tastiere e synth già in studio. Partendo da queste considerazioni abbiamo parlato con Pierpaolo Capovilla, Gionata Mirai, Marcello Betelli e Kole Laca nel camerino del TPO di Bologna. Poco più tardi il palco del centro sociale bolognese è stato calcato dai Bachi da Pietra e successivamente da Il Teatro degli Orrori che ha messo in scena il suo spettacolo rock per ben tre – e dico TRE – ore di fuoco. (Si ringraziano la band ed in particolare Kole, BPM concerti, il TPO; foto di Roberto Serra)
Trovo i testi del vostro ultimo album particolarmente efficaci, puntuali. Per esempio anche il testo di Bellissima, pur essendo avvolto in una metafora, non necessita di spiegazioni. Arriva chiaro immediatamente…
Pierpaolo: Sì, io comunque mi prodigai a spiegarlo subito nel comunicato stampa. Una cosa che trovo molto significativa nella canzone popolare è che il processo creativo non si ferma con chi scrive ma continua in chi ascolta. Autore e fruitore si alleano affinché riescano a fiorire dei significati, anche differenti. Spesso mi sono dovuto sorprendere nel verificare l’efficacia di differenti significati: questa io la chiamo dialettica. Tu hai parlato di un linguaggio “puntuale” e quella è la parola giusta. Direi anche “urbano”. Furono proprio Gionata e Giulio ad invitarmi ad essere più incazzato che mai.
Bellissima è stato l’ultimo brano scritto. Stavo componendo una canzone d’amore che ad un certo punto è diventata odiosa così ho dovuto svicolarmi a tutti i costi. E’ stato il brano più difficile, però alla fine mi sembra che ci siamo riusciti. E dal vivo è molto più bello!
Bellissima si lega anche fortemente a Il lungo sonno, nel quale però il tema politico è molto più centrato e diretto.
Pierpaolo: Il Lungo sonno è un pezzo sarcastico, ironico e provocatorio. Una provocazione che ho dovuto scrivere in quanto ex iscritto al Partito Democratico mi sento tradito. Un partito che ha tradito se stesso, i valori, il metodo democratico del partito stesso; vivo questo con lutto ed avversione. Ho scritto questa canzone per mandare a quel paese Renzi e il suo apparato dirigente. In questo Paese bisogna fare sempre tutto daccapo perchè i demagoghi e gli arrampicatori sociali l’hanno sempre vinta.
La musica e la politica sono legate. Penso agli anni ’70, ma in un modo diverso anche ai successivi ’80 e ’90. Ora, per quanto riguarda i grandi nomi e i grandi numeri, la musica sembra essersi allontanata dal tema politico. Riconoscete, intorno a voi, un modo diverso e possibile di avvicinare la musica alla politica?
Pierpaolo: La musica è politica. Dobbiamo chiarire questo: fa politica anche la Pausini, X-Factor, Amici, Sanremo; non è che la cultura non c’entri niente con la politica, con il progresso del consorzio umano. Una volta chiarito che la cultura, e con essa l’arte, e con l’arte la canzone popolare, è cruciale nella narrazione di un paese… ognuno si prende le sue responsabilità.
Gionata: Andare ad un concerto di Ramazzotti è un atto politico. E pure molto evidente e schierato.
Pierpaolo: Con questo non si vuol dire che chi ascolta Ramazzotti è un cretino qualunquista, non è questo il punto. Però si vuole dire che lui, sì, è qualunquista! Questi cantanti non ci hanno mai detto nulla se non i cazzi loro o al massimo storie e situazioni che si immaginano… la fantasia è dei bambini, a noi serve l’ingegno! Nell’ingegno c’è l’indagine, la curiosità, la voglia di raccontare: tutto questo non c’è nella canzone mainstream. Guccini lo ha detto chiaramente, pensa a certe domande… “Perchè non scrivi più le canzoni?”, lui ha risposto con onestà intellettuale: “Perchè non mi vengono più”; “Cosa pensi della canzone italiana attuale?”, lui ha risposto: “E’ completamente inutile”. Ha ragione!
Vi rivolgo la stessa domanda che ho fatto non molto tempo fa anche ad un’altra band, i Drunken Butterfly. Come nel vostro, anche nel loro ultimo album (Codec_015 – Black Fading 2015) c’è un brano che si intitola Genova. Perchè a distanza di quindici questa coincidenza? Perchè avvertire ancora il bisogno di trattare quell’evento?
Pierpaolo: E’ vero, conosciamo bene i Drunken Butterfly e con loro abbiamo condiviso palchi. In quell’album c’è anche un brano (Il Belpaese) nel quale hanno messo in musica una terribile poesia di Pasolini dal titolo Alla mia nazione. Un bel coraggio! Comunque, venendo alla domanda: proviamo a pensare alle vittime, ai familiari delle vittime, a quel vecchietto nostro concittadino vicentino che ha vinto la sua causa a Bruxelles. Aveva sessant’anni quando era alla Diaz e gli spaccarono dieci costole, due gambe in più punti, due braccia, le mani e trauma cranico. Cos’altro volevano spaccargli? Lo volevano ammazzare! Di fronte a quel tentato omicidio che fu a Genova, dobbiamo fare come il nostro Parlamento che, anche spinto dall’Europa a legiferare sul tema della tortura, se ne è dimenticato completamente? Secondo me quindici anni non sono tanti. Ci stanno raccontando che quindici anni fa è Preistoria, ma non è così! La storia non corre così veloce! Cerchiamo di essere vigili, critici. Ricordare serve a mantenere viva la nostra democrazia.
Quell’uomo, in un’intervista diceva sconvolto: “Non avevo mai sentito tanti ragazzi chiamare mamma e papà in tante lingue diverse”. Dobbiamo ricordarlo!
Passando alla musica, dicevo che ho notato una certa apertura anche al pop. Solo dei brevi frangenti, dei dettagli, come spiragli di luci, di colore. E’ una cosa studiata o venuta naturalmente?
Gionata: Per noi c’è sempre stata la ricerca e la volontà di raggiungere alcune sensazioni pop ma con strutture e sonorità che di pop non hanno nulla, quindi con il rock più pesante. E’ una cosa che ho sempre invidiato tantissimo, per esempio, ai Fugazi. Sono stati capaci di fare dei ritornelli che…
Pierpaolo: Ti entrano nel cervello e non ti escono più! E poi dicono anche delle cose intelligenti nei testi.
Gionata: Comunque non so se in questo disco ci siamo riusciti più che in altri, ma di certo è una nostra volontà. In questa occasione le tastiere sono state inserite già in fase di composizione: le abbiamo volute incastrare con le chitarre in modo quasi matematico, come un Tetris. Può essere che questo ordine riescA ad offrire una percezione di un suono complessivamente più pop. Per esempio in Cazzotti e suppliche, la parte nel mezzo, è proprio “poppissimo”, però è un 9/8 o un 7/8… sembra facile, ma non lo è.
Quindi l’inserimento delle tastiere in studio ha veramente modificato anche la scrittura?
Pierpaolo: Sì, assolutamente. Credo che l’inserimento delle tastiere di Kole, senza nulla togliere alla chitarra di Marcello, abbia portato ad avere un suono più “europeo”, più britannico. E’ un suono che ci rende più contemporanei.
Volevo chiedere proprio a Kole e Marcello, che hanno sulla band uno sguardo più libero in quanto sono i più giovani in termini di inserimento nel gruppo, in cosa si distingue Il Teatro degli Orrori dalle altre band del panorama?
Kole: in termini anagrafici io sono il secondo più vecchio! Mentre Marcello è proprio il più giovane in assoluto. Comunque la cosa principale è che si tratta di una band che non ha paura. Spesso mi capita di notare in molti altri progetti musicali una tendenza ad essere un po’ piacioni, modaioli, o di scegliere una categoria di pubblico precisa alla quale fare riferimento. La sensazione mia ne Il Teatro degli Orrori è che questa band se ne sbatta proprio di tutto ciò.
Marcello: Sì, è una questione di coerenza. Prima di tutto una coerenza di metodo che va a sostenere l’idea forte fondante di ogni album. Ad esempio Il mondo nuovo, che era un disco molto diverso dai precedenti, riusciva comunque ad essere estremamente coerente con il discorso che la band stava portando avanti. Nel panorama attuale sembra invece prediligere il pensiero: ho trovato la formula, continuo imperterrito su quella.
Kole: Spesso sono state mosse delle critiche a Il Teatro degli Orrori alle quali verrebbe da rispondere “Ma cosa volete? Sempre la stessa roba?”. A me piace tantissimo Compagna Teresa, ma dobbiamo fare solo quella o farne di nuove tutte uguali a quella? Ci piace provare altre vie.
Marcello: Come accadeva infatti nei gruppi del passato. Ho davanti Gionata e mi vengono in mente i Queen per esempio!
Gionata: Ah ah ah! Per i baffi forse!
Marcello: Esatto! Loro hanno saputo fare cose molto diverse, anche rispetto a quello che era il mercato. Ora sembra che sia più difficile scostarsi da un percorso già delineato.
Venendo alla dimensione del live, invece: la prima volta ci siamo incontrati nel 2008, Pierpaolo mi aveva parlato del riferimento al teatro di Artaud. Nel tempo questo approccio è cambiato?
Pierpaolo: No, perchè dovrebbe? Al massimo si approfondisce. Quella che Carmelo Bene chiamava “macchina attoriale”: noi facciamo quella cosa lì declinata al rock. Tu lo sai che Carmelo Bene voleva suonare in un gruppo rock? Lui era una persona di una vanità e di un narcisimo incontrollabili; non riuscendo nel rock allora si diede al teatro. Forse a me, è capitato il contrario: avrei voluto fare il teatro ma ho incontrato il rock’n’roll. Il riferimento ad Artuad non è casuale. Quando si sale sul palco per noi si resuscita la vita vera contro la routinizzazione della quotidianità. Quelle due ore sul palco sono volte ad un rinascimento non solo culturale ma proprio antropologico, per riscoprire la macchina biopolitica che ognuno di noi è.
Noi sul palco non scherziamo, mettiamo in bella mostra i nostri sentimenti, però non canzonette sull’amore ma sulle difficoltà del vivere in questo frangente storico.
Il discorso lo ha anticipato Kole poco fa: nel live qual è il rapporto con i brani più vecchi?
Pierpaolo: Abbiamo fatto una scelta molto radicale per questo tour. Abbiamo diviso la scaletta in due parti nettissime: la prima con il disco nuovo per intero, la seconda con una selezione di brani scelti dalla nostra fan-base. In questa classifica il brano preferito è risultato Compagna Teresa: buon segno, buon segno! La prima parte del concerto per me è un’emozione grande. Quando canto Cazzotti e suppliche, dopo qualche minuto non mi sento più in me stesso… ci sono parole così gravi e definitive… urlare a squarciagola “Mi odio e voglio morire”… sai, questa ammissione di correità con la vita degli altri è una cosa che mi colpisce il cuore ogni volta. Trovare ancora queste emozioni che pensavo defunte mi stupisce molto: non ho venti o trent’anni, ma ne ho quasi cinquanta. La seconda parte del concerto, pur mettendoci il cuore, la sento più come un “mestiere”. In tutta onestà è così.
Gionata: E’ proprio questione di interpretazione diversa. Anche se La Canzone di Tom resta un brano che mi piace un casino! Sarà anche per il fatto che alla chitarra posso permettermi di farla sempre diversa, ogni volta.
Pierpaolo: Io sono più recluso in versi che in qualche modo ora sento più datati. Resta il fatto che quando la canto penso sempre a Tom Dreyer, penso a quel bel tatuaggio che aveva sulla nuca (il logotipo dei Black Flag), penso a quanto ci voleva bene, a quanto era bello, e penso anche ai suoi genitori che ho conosciuto al suo funerale, alla loro incredibile dignità. Però in parte sono stanco di dover fare sempre questi pensieri… ma me la sono cercata: “Cantare una canzone, per non dimenticarti più”, e così è stato.
Dal palco avete un occhio privilegiato sul vostro pubblico: in questi anni lo avete visto cambiare, invecchiare, mutare il modo di approcciarsi alla musica?
Gionata: Ora forse c’è un certo assestamento del pubblico. C’è stato un periodo invece con tanti giovanissimi… alcuni sono cresciuti con noi, altri sono cambiati.
Pierpaolo: E’ comunque un pubblico piuttosto intergenerazionale. Non ricordo in quale data ma recentemente ho passato due minuti a cantare fissando un settantenne. Era rapito, coinvolto, gli avrei dovuto dedicare il concerto ma non ho voluto imbarazzarlo… poi lo avrei perso, poi non torna più!
Gionata: E’ bello che venga anche un pubblico adulto, che ovviamente ha consapevolezza, un senso critico ed un trascorso culturale diverso.
Vorrei chiedervi un’ultima cosa riguardo i fatti del Bataclan. Voi, in quanto artisti che calcano palchi simili, avete vissuto questa notizia in un modo particolare? Si è sentito spesso parlare di un attacco alla musica, con commenti tipo “la musica non si fermerà”… voi cosa pensate a riguardo? Vi è capitato di riflettere dal punto di vista della band coinvolta?
Gionata: Si possono pensare tante cose su quanto avvenuto, ma cosa vuoi pensare degli Eagles of Death Metal che dopo due settimane sono diventati famosi ed ora piangono in televisione insieme agli U2? Certo, si saranno cagati addosso in quei momenti, ma c’è della gente che si è presa una pallottola in faccia. Cose che proprio non si riescono nemmeno ad immaginare. Per quanto è accaduto intorno a questa tragedia si potrebbe parlare per giorni… io posso dire che non sarei tornato a suonare con gli U2.
Pierpaolo: Una cosa che trovo fastidiosa! Un minimo di lutto non possiamo concederlo? Comunque io mi chiedo come sia stato possibile che un gruppo di jihadisti, giovani francesi e belgi già controllati dai servizi segreti, se ho ben capito, siano stati liberi di entrare in quel locale e fare una strage. Mi chiedo perchè non siano andati ad una prima di qualche opera lirica a fare fuori l’intero apparato dirigente… non mi prendere per complottista perchè so benissimo che la storia è anche fatta da incidenti ed accidenti, ma il fatto di fondo è che certi giovani non si riconoscono nel nostro consorzio umano. Certi giovani vanno al Bataclan ad ascoltare musica rock, altri ci vanno ad ammazzare. Dobbiamo farci un’esame di coscienza: questi ultimi sono anch’essi figli della nostra società! La seconda domanda da farsi quando ci sono eventi terroristici di questa portata è “a chi fa comodo?”. La realtà è che la guerra ci sta saltando addosso ed è colpa nostra. E’ doveroso fare le condoglianze, provare compassione, ma dovrebbe essere doveroso poi svolgere anche un pensiero critico nei confronti del nostro agire storico, perchè questa violenza allucinante l’abbiamo iniziata noi, intesi anche come nazione Italia, nel 1991 con la Guerra del Golfo.
Marcello: Eventi del genere sono talmente complessi, ma comunque sono eventi terroristici dove la musica è un fatto marginale. E’ invece diverso se si pensa a fatti come quello del Roskilde, dove i musicisti si trovano di fronte a situazioni drammatiche che c’entrano davvero con l’evento musicale. Anche in Italia ci sono stati crolli di palchi che hanno causato delle morti, di gente che peraltro stava lavorando per quei concerti! Problemi legati alla sicurezza: quelli sì che mi toccherebbero come musicista.
Gionata: Io non mi sento toccato come musicista o artista da quanto accaduto al Bataclan. Assolutamente no. Mi sento toccato in quanto essere umano.