Morire due giorni dopo aver dato alle stampe l’ultima fatica discografica, il perfetto colpo di teatro che solo Bowie poteva permettersi; quale altro alieno avrebbe potuto decidere e affrontare così il giorno della propria scomparsa? Lui che aveva ucciso il suo alter ego Ziggy Stardust sul palco dell’Hammersmith Odeon, che aveva abbandonato le scene per 10 lunghissimi anni, che aveva reinventato più volte il proprio personaggio, risorgendo ogni volta diverso, ogni volta se stesso, sempre nuovo, sempre Bowie.
Blackstar, una processione che suona come un lentissimo volo in planata sulle remote sabbie orientali, con quella batteria in controtempo, l’arpeggio liquido, i fiati esotici, i bassi sintetici, la voce che intona l’invocazione cerimoniale e accompagna il corteo fino alla rinascita di Ormen/Bowie. Un viaggio esoterico alla ricerca del cranio feticcio del defunto Major Tom, percorso simbolico che diventa nelle parole del cerimoniere una sintesi della parabola artistica di David e al contempo rivela agli adepti la sua ultima incarnazione, con un coro di demoni miniaturizzati e avvolti nel cellophane “I’m a blackstar, I’m not a gangster/ I’m a blackstar, I’m a blackstar/ I’m not a pornstar, I’m not a wandering star/ I’m a blackstar, I’m a blackstar“. Una stella nera, forse a cancellare il bianco duca, tra i suoi personaggi il più frainteso, e tutti gli altri corpi celesti che hanno scandito le tappe in technicolor di cinquant’anni di carriera. E di neri frammenti d’astro si compone il suo stesso nome sulla spoglia copertina dell’album. Ma l’ultima, definitiva fatica di Bowie non è solo il suo canto del cigno, il suo inatteso e indesiderato testamento, ma anche la prova di una straordinaria vitalità, di caparbia determinazione, di volontà inflessibile, di ricerca libertaria. Non è un caso che sia il suo album più jazz, a partire dalla formazione di musicisti reclutati per l’occasione tra i migliori della scena statunitense e grazie ai quali viene approfondita una passione che aveva già dato i suoi frutti notevoli nel sottovalutato Black Tie White Noise del ’93, pescato volutamente giusto nel mezzo della sua vasta produzione. Lì pero il jazz era un mondo forse ancora sconosciuto, a parte le prove dell’ultimo Davis come Doo bop, mentre qui siamo di fronte a più di un mash up. Così il free di Albert Ayler s’infila tra i colpi furiosi della batteria di ‘Tis a Pity She Was a Whore, con le sue marce stridule ed ebbre, soffiate a pieni polmoni, come richiami tribali, urla di primati cacciatori. E la stessa foga liberatoria, che solo il grido arrabbiato di una rivolta razziale potrebbe eguagliare, torna prepotente anche nel finale di Lazarus (che vanta un’intro che farà invidia a molto indie nostrano), il cui tema è affidato a fiati dolorosi quanto la segreta malattia del protagonista: “Look up here, man, I’m in danger/ I’ve got nothing left to lose“. Bowie che sente la morte incombente, ma prima di infilarsi furtivamente nell’armadio antico della sua camera vuota lancia un ultimo slogan toccante: “This way or no way/ You know, I’ll be free/ Just like that bluebird“. Ed è l’energia adrenalinica della lotta che informa Sue (Or in a Season of Crime), col suo riff tagliente e violento anche senza le distorsioni sature di Earthling ma con lo stesso ritmo travolgente, benchè privo di tutti gli orpelli jungle. Crudo. Nudo come la notte metropolitana in cui Sue, che sembra l’ennesimo alter ego di David, quello della malattia, lo tradisce inaspettatamente con un clown mentre tutt’intorno il mondo si sgretola e rovina. Da quelle ceneri emerge Girl Loves Me, nonsense, cut-up, sarcastica filastrocca onomatopeica, l’attesa alla maniera inglese di un futuro indecifrabile o fin troppo chiaro: “Where the fuck did Monday go?“. Sembra tutto pronto e Dollar Days con quel piano da lacrime copiose e quelle corde appena sfiorate dal plettro diventa quasi insopportabile, tant’è inaccettabile l’ascolto di quella voce che intona con l’ultimo fiato: “Don’t believe for just one second I’m forgetting you/ I’m trying to/ I’m dying to“.
La necessaria, sospirata leggerezza arriva alla fine, nella disarmante dichiarazione di I Can’t Give Everything Away, il perfetto commiato, la vita che continua, con ciò che va male e distrugge, precipita e schiaccia, e con ciò che rinasce, cresce, pulsa, sogna, crea, si innalza, verso le stelle, verso blackstar.
Credits
Label: ISO/Columbia – 2015
Line-up: David Bowie (vocals, acoustic guitar, mixing, production, string arrangements, Fender guitar) – Donny McCaslin (flute, saxophone, woodwinds) – Ben Monder (guitar) – Jason Lindner (piano, organ, keyboards) – Tim Lefebvre (bass) – Mark Guiliana (drums, percussion)
Tracklist:
- Blackstar
- ‘Tis a Pity She Was a Whore
- Lazarus
- Sue (Or in a Season of Crime)
- Girl Loves Me
- Dollar Days
- I Can’t Give Everything Away
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