Soliera è una delle tante cittadine della provincia italiana: un piccolo centro antico, un quartiere con insegne commerciali tra viali alberati e palazzi, una zona esclusivamente residenziale con villette a ridosso dei campi, e poi la campagna lunga e piatta. La pianura padana con le sterminate distese, i canali, qualche centro industriale disseminato qua e là alternato ai campanili.
“La campagna l’ho sempre trovata triste, con questi letamai che non finiscono più, queste case dove la gente non c’è mai, questi sentieri che non vanno da nessuna parte, ma vi assicuro che se uno in più ci aggiunge la guerra allora c’è davvero da uscire pazzi”. Così scandiva la voce di Elio Germano in una piazza di Soliera esattamente posta tra campagna e campanile; così scriveva Luis-Ferdinand Celine a cavallo tra gli anni ’20 e ’30.
La guerra, lo sfruttamento, la disparità e le atrocità non sono altro che nefandezze insite nell’essenza dell’uomo e Celine le ha narrate con coinvolgimento e forza inusuali dopo aver vissuto la prima guerra mondiale, aver visto l’Africa e l’esplosione industriale di New York. Lo fece nel famoso romanzo Viaggio al termine della notte, proposto questa sera da Elio Germano e Teho Teardo nella forma di uno spettacolo tra teatro, musica e reading letteraio.
Elio Germano, attore pluripremiato (dal David di Donatello al Festival di Cannes) con la sua voce penetrante e l’intensa interpretazione resta seduto sulla sinistra del palco. Gli unici elementi dinamici nella sua performance sono due differenti microfoni, una lampada, le sue mani, il suo viso.
Al centro del palco, invece, Teho Teardo imbraccia la chitarra di fronte ad un computer e ad una notevole quantità di cavi, tasti e pulsanti. Martina Bertoni, violoncellista che sempre accompagna Teho Teardo nelle sue esibizioni, seduta nella statuaria ed elegante posa tipica di chi suona quel magnifico strumento capace di emozionare come pochi altri.
Lo spettacolo dura poco più di tre quarti d’ora nel susseguirsi alternato di letture recitate ed esecuzione di brani musicali. Se le prime, vista la vastità dell’opera originale di Celine, risultano un po’ troppo frammentarie, la musica opera invece da legante, come un sipario che si chiude portando via uno scenario e si apre su altri colori e situazioni.
La musica di Teardo e Bertoni è incalzante, spesso sostenuta da un ritmo ossessivo, splendida nella vellutata tensione offerta delle note di violoncello, toccante in quelle pizzicate e pulite sulla chitarra, sempre pronte a trasformarsi in suoni distorti e dilatati.
Il racconto della miseria morale dell’uomo trova in questa musica dannazione e redenzione, confondendosi, sciogliendosi, creando un unico climax che veste perfettamente le parole scritte da Celine ed interpretate con passione da Germano.
Grazie a questo connubio diventa facile perdersi ed immedesimarsi, riconoscersi “il solo vigliacco sulla terra, che spavento!, perduto tra due milioni di pazzi eroici, e scatenati, e armati fino ai denti” preambolo della triste conclusione: “è degli uomini, di loro soltanto, che bisogna avere paura”.
Parole e musica di angoscia rassegnata, nichilista ma assolutamente lucida. Cosa distingue gli esseri umani dagli animali? La vana speranza. Mentre intorno a noi vediamo animali nascere, faticare e morire, noi esseri umani passiamo la vita immobili a sperare in qualcosa, a professare fede verso l’illusione di una vita che ci distingua.
La voce di Germano risuona roca e strisciante quando espone la verità di Celine al pubblico di Soliera: “siamo tutti marci, marci dalla nascita”.
Poi note che si incastrano una nell’altra, si distorgono i suoni, le vibrazioni cambiano forma fino all’esplosione di energia, motori di aeroplani, distruzioni di bombe e palazzi crollati, una storia che si ripete, una storia che finge di andare avanti.
A Teho Teardo e Elio Germano va il merito di portare da diversi anni questo prezioso spettacolo in giro per l’Italia, in teatri ma anche luoghi più umili come il palco che li ha accolti questa sera. A dire il vero in molti tra il pubblico si aspettavano qualcosa di diverso, di dinamico, con una più esplicita e diretta commistione tra musica e performance teatrale. Gli autori di questo spettacolo hanno invece preferito puntare sull’essenzialità, lasciando l’emozione sola su un piedistallo trasparente. Nessuna narrazione, nessun aiuto: un’emozione che picchia tra capo e collo, ma anche nel ventre e nei reni, picchia forte e lascia il sapore amaro del fiele in bocca. Quel marcio del quale scriveva Celine, capace di renderci uguali, tutti, nella consapevolezza e nella voglia di comprendere, e nell’ostinata volontà di sperare in qualcosa di diverso, come nel senso della bellezza offerta e ricevuta dall’arte di questo spettacolo.
(foto 2 di Marcello Orselli)