Abbiamo conosciuto Bruno Bavota tre anni fa, attraverso le note de La casa sulla Luna, suo secondo album. Il suo mondo onirico, che sa di sogni e di mare, ci ha conquistati dal primo ascolto. Il suo modo di approcciarsi al pianoforte, semplice e diretto, è stato in grado di farlo conoscere e apprezzare anche da un pubblico abbastanza vasto, tanto che da qualche anno si esibisce in tutta Europa. Il 30 settembre uscirà Out of the Blue, quinto lavoro in studio di Bavota: ne abbiamo approfittato per farci raccontare dall’artista partenopeo un po’ del suo mondo.
Siccome è la prima volta che abbiamo il piacere di interagire con te, partiamo da una domanda classica. Da dove arriva la tua passione per la musica? Qual è stato il percorso che ti ha portato a farne un “mestiere”?
Un saluto a voi di LostHighways! La musica ha accompagnato e tuttora fa parte delle mie giornate. Da sempre sono stato un affamato di musica, la trovo una cura per l’animo, riesce a toccarti più di mille parole. Sicuramente posso dirvi che, da mero ascoltatore, la musica ha mosso qualche meccanismo interiore ed ha fatto sì che sublimassi l’emozione provata in note. Per spiegarlo bene, mi occorrerebbe molto tempo. Ho iniziato nel 2010 con il primo album Il pozzo d’amor, un disco nato di getto in studio in una sola giornata. Nel mio piccolo riuscii a far ascoltare un po’ il disco in giro con un riscontro bellissimo. Non pensavo, a quel tempo, di farne un mestiere ma semplicemente lo trovavo un modo per parlare agli altri, per raccontare qualcosa di me. Una svolta è avvenuta tre anni dopo, con il mio secondo album La casa sulla Luna: il disco ebbe un ottimo riscontro sopratutto all’estero, e riuscii a esibirmi alla Royal Albert Hall di Londra e ora mi trovo qui.
La tua musica è delicata, onirica. Ci vuoi raccontare come ti approcci alla composizione?
Può capitare nei modi più diversi. Di base nasce quasi sempre da una sensazione provata in un determinato momento della mia vita. Ci sono dei giorni in cui so che è il momento di abbracciare il pianoforte, quasi in cerca di conforto. La pioggia è un elemento che mi dà molta ispirazione, suono sempre quando fuori piove.
Parlaci un po’ di Out of the blue, il tuo album più recente che uscirà il 30 settembre. C’è una sorta di concept dietro i brani?
Il concept è un po’ lo stesso che da sempre rappresenta la mia musica: l’esigenza di raccontare la bellezza della vita in tutte le sue sfaccettature, che siano felici, entusiaste o malinconiche. La malinconia è per me anche positiva, riesci a scavarti dentro e raggiungere il fondo che spesso può essere anche luminoso! Out of the blue vuol dire letteralmente “improvviso”, qualcosa che accade senza alcun avvertimento e l’ho trovato un modo perfetto per descrivere la mia musica e la mia vita in generale.
In un’epoca dove se non urli non sei nessuno, dove l’importante è dire la propria, anche al costo di fare pessime figure, tu hai scelto di far parlare solo la musica. C’è un motivo per cui hai deciso di non aggiungere parole alle tue note?
Sicuramente perché sono stonato! A parte gli scherzi, è una domanda che mi hanno sempre fatto: preferirei più magari una collaborazione, aggiungere il mio pianoforte a un progetto diverso dal mio.
Nel disco compaiono diverse collaborazioni (il violoncellista Michael Nicolas e il violinista J. Freivogel) e si nota un certo gusto per la sperimentazione, attraverso le interazioni anche con l’elettronica. Ci sono artisti, anche lontani dal tuo genere, con i quali ti piacerebbe collaborare?
Mi piacerebbe molto collaborare con gli Hammock, le loro atmosfere sono da pelle d’oca!
Vieni da Napoli, una città di mare, e ascoltando i tuoi album ho sempre l’impressione di vederlo questo mare. E’ come se le tue note uscissero direttamente dalle onde del Mediterraneo. Quanto influisce la tua città sul tuo modo di fare musica?
Napoli influisce molto, è una città che adoro e che permette di emozionarmi quotidianamente. Proprio l’altro giorno ero in bicicletta ascoltando Damien Rice, era una giornata limpidissima e con dei colori magnifici: ecco, dopo trentadue anni, provo ancora i brividi per scenari del genere.
Concludo con un’ultima domanda. Se dovessi dipingere la tua musica che quadro uscirebbe?
Domanda difficile, ti direi L’abbraccio di Egon Schiele.