Prendete fiato e mettetevi comodi. Questa intervista non è come tutte le altre. Sarà perchè il romagnolissimo Alfredo Nuti non è come tutti gli altri: tra ironia e fancazzismo riesce a snocciolare perle di saggezza che si potrebbero tatuare sulle braccia (altrui). Grandi “non-verità”, acute e divertenti, per comprendere meglio dove la musica può andare e come può essere vissuta senza seghe mentali, in assoluta libertà. Tra un paio di domande serie, un preziosissimo consiglio per le notti brave e qualche vero e proprio affronto (sappiamo che Ferrara non è territorio romagnolo, ma ci piace provocare), ecco a voi la “world music romagnola”! (Foto 1 di Gianmaria Zanotti)
Mi diverte tantissimo la definizione con la quale presentate la vostra musica: “world music romagnola”. Rappresentate una Romagna tradizionale ma anche frutto del meltin-pot linguistico e culturale tipico dell’estate in riviera; una romagna un po’ crucca e che si sente stretta nel suo Mediterraneo. A tal proposito, la vostra musica come ha incontrato quella dell’Oceano che bagna il centro e il sud dell’America?
“Crucca” mi piace, fa una gran nostalgia! Ma sì dai, tutti sanno che l’assimilazione di musiche “esotiche” da parte di quelle nostre “occidentali” (termini stupidi, ma che ci vuoi fare) è oramai un’acquisizione ovvia, della quale non ci sarebbe neppure bisogno di parlare se non fosse che, nei modi concreti, ciascun artista continua a riproporre il tema a modo suo. Nel caso nostro si tratta di un’appropriazione, per così dire, al limite del legittimo, se non altro perché tutti abbiamo interessi che non prevedono una riflessione lunga e meditata sui generi caraibici. L’aspetto che a me interessava era proprio quello di lavorare su suggestioni di genere superficialissime, in modo tale che il richiamo a certe atmosfere non avesse nulla di filologico o di turistico; idiozie tipo “mito del buon selvaggio”, o dei “neri con la saudade” o, peggio ancora, “con il ritmo nel sangue”, per intenderci. In breve potrei dire che l’arte “lontana”, nel tempo e/o nello spazio, può essere, se non si eccede con il rispetto, uno spazio vuoto all’interno del quale si esercitano, nel gioco infinito della mimesi, le sensibilità più diverse. Nel caso nostro di romagnoli forse è proprio come dici tu, per esempio: a quale mare potremmo dedicare il nostro calypso? Hai visto che cesso di mare abbiamo? Il risultato sarà per forza una farsa domenicale: World music romagnola, per l’appunto.
Trovo anche molto azzeccata la copertina del vostro disco Portobello: una piscina abbandonata che sembra una palude dalla quale si avvicina un coccodrillo gonfiabile; la palma (anch’essa gonfiabile) non riesce a nascondere i pioppi sullo sfondo. Un gioco, un artifizio… un po’ come la vostra musica?
C’è poco da aggiungere, è bello essere compresi. Permettimi una digressione: se c’è una cosa che mi sorprende sempre è che per la maggioranza degli appassionati di musica parlare di artificiosità è sempre come parlare di un difetto, mentre io trovo che non si possa fare ad un artista complimento più grande. L’idea di dover essere “veri” con la musica infatti è un’idiozia tardo romantica che ha devastato quasi tutto il novecento, una iattura accettata come verità indiscutibile da tutti e che presuppone, con molta poca umiltà, la demenza assoluta di tutta l’arte, ma soprattutto di tutti gli uomini, dai primi segni sulle caverne fino, circa, ai primi dell’Ottocento, e che è parte integrante anche della storia del rock dove se non sei stato almeno uno schiavo, un drogato, un carcerato, se non ti è morto qualche parente stretto, ma soprattutto se sei ancora vivo, non sei nessuno. Prova a dire a qualcuno che ti fa schifo, che ne so… la voce di Elliott Smith! Se non ti linciano è un miracolo. Vale a dire che i crepati male hanno dimostrato di avere “verità” di contro “all’artificio” di chi fa semplicemente il proprio lavoro, e questo è incredibile se pensi che per tutta la storia del pensiero la vita “vera” è sempre stata l’arte di crepare “bene”. Mi pare troppo per chiamare questa “Verità” una grande cosa, almeno senza avere mai dubbi sul suo effetto terroristico. L’etimo stesso di “artificio” dovrebbe dirci molto sull’arte, ma tuttora non lo fa, ed è ora che lo faccia. Almeno io lo spero. È una fortuna che la realtà stia cominciando a mandarci a fanculo, noi rockettari tutti, con tutta la nostra favola.
Portobello è composto da otto brani: quale pensate sia la traccia che in assoluto meglio vi rappresenta?
Non saprei. Un album vorrebbe sempre rappresentare la totalità delle cose che contiene, però c’è un brano che continuiamo a registrare sempre (in giro se ne trovano almeno cinque versioni) e che probabilmente finirà anche nei prossimi dischi: Tristi tropici (infinita nostalgia). E’ il primo calypso che ho scritto per i Supermarket e in un certo senso contiene già tutto quello struggente senso di declino, e di abbandono super-kitsch, che vorrei dalla nostra musica. Tanto vale rifarlo sempre.
C’è invece un brano “incompreso”?
Tutti. I nostri brani sono sconosciuti ai più, quindi la loro fase è antecedente a quella di una comprensione possibile: sono ancora salvi.
Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di assistere ad un vostro concerto (esperienza che consiglio a tutti) al Tpo di Bologna. La formazione a cinque elementi era quella delle grandi occasioni e il pubblico accorso al Tpo per gustarsi birre artigianali forse non era preparato al vostro insolito sound ma dopo poco avete conquistato tutti. Qual è il segreto? Senza modestia, ditemi quale pensate sia la vostra migliore qualità.
Non saprei… qualche pregio però, come dici te, dovremo pur averlo… forse nel tempo che ci troviamo a vivere, dove la gioia e l’entusiasmo sembrano finiti chissà dove, e con tutte le ragioni che sappiamo, non si trova più un pubblico dotato di tanto animo da fornire avvalli ai problemi interiori del depresso di turno. Il teorema secondo cui la saggezza andrebbe vestita con il triste, nero, manto della depressione è pericoloso, sbagliato, borghesissimo, e anni novanta. Pur essendo condannata dai tempi di Seneca, questa nefasta attitudine dello spirito si ripropone ostinatamente e, guarda caso, sempre nei periodi di vacche grasse. Beati depressi di una volta, con soldi, lavoro, e un pubblico a cui rompere i coglioni. Invece, stavolta, veramente Mala tempora currunt! Per cui forse risponderei alla tua domanda col dire che il nostro pregio, se ne abbiamo uno, può consistere soltanto in una certa, credo, “leggerezza” (se non fosse oramai una moda citare a sproposito le Lezioni americane, ti direi “leggerezza come la intendeva Calvino e bla bla bla bla bla”).
Per ultimo va sottolineato il fatto che siamo anche bravissimi, direi i migliori.
Qual è il posto più assurdo nel quale avete suonato finora? E il più assurdo nel quale invece vorreste suonare?
Sono talmente tanti che non è possibile indicarne uno, né tantomeno enumerarli: campi di zucche, cessi pubblici, gelaterie, bagni al mare, gabbioni dei cani, pollai, vivai, kebabbari, sagre della ranocchia, stadi deserti, palestre vuote e così via. Sicuramente ci piacerebbe poter suonare al matrimonio di un calciatore.
Come dicevo, le influenze rielaborate ed assemblate nei vostri brani sono molteplici. Il risultato è una sorta di indefinibilità che riesce ad incuriosire tanti. Nelle vostre vite personali, musicalmente cosa vi ha segnato maggiormente? Quali artisti riconoscete come riferimenti?
È una domanda, come sai, difficilissima, che scomoda la perenne questione delle”influenze”, se esse esistano per quanto riguarda i musicisti, o se siano solo un termine riferibile a fastidiose malattie stagionali. In questo caso posso parlare solo per me, e devo dire che trovo tutte le cose del mondo interessanti: i Resident, Raul Casadei, i Gastr del Sol, Brigitte Bardot, i Wu-tang clan, Christian Fennesz, Peppino di Capri, i Beatles, gli Equipe 84, i Tortoise, Fela Kuti, Glenn Branca, i Circle Jerks, Zucchero, i Black Flag, John Zorn, i Pantera, Robert Wyatt, i Don Caballero, i Nomadi, i Timber timbre, Wilco, Gabriella Ferri, i Fugazi, Mary Halvorson, Ornette Coleman, gli Mc5, i New York dolls, i Pink Floyd, Bijork, Roberto Murolo, Monk, i Talk Talk, i Bluvertigo, Nick Cave, i Rolling Stone, Rosa Balistreri, i Sonic Youth, Art Tatum, i Los lobos, De Gregori, i D.N.A, Django Reinhardt, i Tuxedo Moon, i Golden Palominos, Latin Playboys, Stevie Wonder, Prince, Beionce, i Rage against the machine, Jovanotti, Pierre Boulez, AIR, Les Savages, Joe Satriani, Claudio Lolli, Medeski Martin Wood, Freak Antoni, Madonna, i Lounge Lizard, Eddie Bo, Bo Diddley, i Nirvana, Duke Ellington, Lou Reed, Olivier Messiaen, Lucio Dalla, i Silver Apple, i Suicide, Igor Stravinskij, Ryuichi Sakamoto, Aphex twin, Haruomi hosono, gli Stooges, i dischi della Leaf records, della Warp, della Motown, Studio one, e così via, andando avanti forse per un mese. Mi è difficile trovare lavori che siano del tutto da buttare nel cesso (eppure ce ne saranno, ma non vorrei scomodare qualche collega). Quello che per me conta, tuttavia, è che diventare “professionisti” – mi scuserai la parolaccia – genera spesso un crepuscolo degli idoli che nel mio caso sta andando avanti da molto, inesorabilmente. Mi pare che le storie sulle quali ho basato la mia formazione siano tutte, a loro modo, per un pubblico, e io – malgrado tutto – non mi sento più uno del “pubblico”, nel senso che non ho più uno sguardo disposto ad attribuire alla musica significati che non ha (atteggiamento che ritengo fondativo di molta parte della musica del nostro secolo – anche tra quella che ho citato). Oltre ad un grande e sconfortante senso di perdita, tutto ciò mi suggerisce, in positivo, di usare per il mio lavoro “generi” ed elementi di “stile” come semplici materie inerti, non partecipate, espedienti operativi, gusci vuoti da riempire di aria fritta, superficie punto e basta. Quindi mi chiedi dei riferimenti: ti dirò che mi influenza tutto ciò che dentro di me è morto abbastanza da non influenzarmi più. Questo è anche il motivo per cui quando mi danno del jazzista mi scappa da ridere, non solo perché il jazz non lo so suonare: ma anche perché è un po’ come scambiare il morto con il becchino.
Ti chiedo ora una vera e propria mini-playlist. Cinque brani che stanno cari ai Supermarket o che semplicemente desideri consigliare a chi ora ha raggiunto questa pagina web dove si parla di musica romagnola, calypso, jazz e cumbia.
Ci faremo guidare da un concetto che, certo, è romagnolissimo ma sicuramente tra i più universalizzabili, quindi molto “world music romagnola”: “quale playlist, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, fa trombare di più?”. Ti avverto che siamo degli specialisti e che qui ci limiteremo a dare un utile assaggio, sperando di giovare a qualche sparuto segaiolo.
1) Secondo Casadei – Spyder 1500: una polka al fulmicotone del nostro grande Secondo, secondo a nessuno – come si dice spesso – ed è vero. Farsi trovare da “Lei” (o da “Lui”) in casa con un grembiule da casalinga tutto pepe, e questa bomba sul giradischi: il risultato è che non si arriva nemmeno al “secondo”, per l’appunto.
2) Santo e Johnny – Canzone di settembre (September song). Suadente Calypsone, strappa mutande come pochi altri; se tutti nel mondo organizzassimo, in simultanea, una cena galante con questo brano in tracklist, potremmo incidere significativamente sulla curva demografica. Senza spot idioti del Ministero della salute.
3) Richard Kahui and the Polinesians: Honolulu I love you (dalla raccolta Hawaiian sunset) . Vale la stessa cosa detta per il brano citato sopra, forse ancor di più.
4) Los Mirlos – Sonido Amazonico (dalla compilation Roots of chicha, psychedelic cumbias from Perù, vol. 1): Cumbiaccia satanica super sexy con un tema di chitarra stortissimo e genialissimo. “Lei” (o “Lui”) vi guarderà come se foste un vero diavolo Azteco.
5) Archie Shepp – A portrait of Robert Thompson (as a young man). Un capolavoro. Se i brani sopra si sperano utili al fine di conquistarLa (-Lo), questo si presenta, al contrario, efficacissimo qualora desideraste liberarvene una volta per tutte. Scapperà via dopo un minuto. In pratica forniamo anche i rimedi.
Se dal vivo risalta il lato più ludico e spassoso dei Supermarket, il disco oltre a divertire infonde anche un certo sentimento di nostalgia e decadenza. Confermate quindi che i romagnoli sanno essere tristi?
Sì, soprattutto da quando siamo diventati poveri anche noi. Non ci sono più le crucche e il PC. L’edilizia abusiva – cui tenevamo molto – è monitorata con i satelliti. Gli incentivi europei per le finte coltivazioni biologiche e il finto fotovoltaico sono al lumicino. Un inizio in CGIL non ci garantisce più né carriera né favori, e per finire, il Cesena quest’anno fa schifo e le fighe – meno abbienti di una volta – non praticano più quel simpatico sesso-elemosina di sinistra, che per molti era l’unica speranza, ma vanno solo coi ricchi. Non ci suicidiamo per pigrizia.
Alfredo, mente e chitarra di questo progetto, sei uno di quei musicisti ai quali piace spaziare (e spiazzare); sei anche testimone di un fermento musicale “tutto romagnolo”. Extraliscio e Saluti da Saturno, Jang Senato, Giacomo Toni, Granturismo, Duo Bucolico, Santo Barbaro, Sacri Cuori: tutti nomi ben conosciuti da noi di LostHighways e che rappresentano una romagnolità più o meno evidente, ma che di sicuro non è casuale. Il delta del Po offre un humus particolare per i musicisti?
Come direbbe Totò: “Delta del Po sarà lei!”, lì nel ferrarese di buono hanno solo le vongole!
Volete cogliere l’occasione per salutare qualcuno in particolare? Penso ai vostri fan che accorrono ai concerti con gli striscioni…
Certo, vorremmo salutare tutte le ottantamila persone che sono accorse al nostro concerto di ieri: perché è certo che senza di loro “non saremmo nessuno”.