L’intimismo sospeso tra delicatezza e irruenza, tra sussurri e altezze nel segno di una grazia da cui restare conquistati. Cosa siamo diventati di Diodato è questo, è uno di questi dischi destinati a restare ancorati al cuore di chi li incontra. E’ un miracolo di empatia, di Bellezza.
Cosa siamo diventati sorprende, si rivela di una bellezza disarmante. Capita con quei dischi che hanno ruolo di rivoluzione emotiva per un autore, secondo me. Mi parli della tua rivoluzione?
Succedono cose che segnano, che stravolgono o semplicemente che ti lasciano dentro un magma emozionale. Se ci metti le mani dentro subito non puoi far altro che bruciarti, che farti del male. Allora forse talvolta è meglio far passare un po’ di tempo, aspettare e poi tornare a guardarlo, farsi raccontare la sua storia. Cosa siamo diventati è un po’ questo, una storia simile forse a tante altre ma sicuramente una rivoluzione emozionale.
In questa rivoluzione l’ammissione della propria fragilità porta ad una libertà che attraversa la scrittura, il cantato, la dinamica degli strumenti. Mi sbaglio?
No, non ti sbagli. Riconoscere le proprie fragilità, analizzarle, affrontarle, indubbiamente libera e ti permette quindi di fare importanti passi avanti.
Penso ad Uomo fragile, posta lì, all’inizio, con il suo incipit quasi sussurrato e con l’improvvisa esplosione che arriva appunto come una liberazione. Posso pensare a questa canzone come ad una sorta di manifesto del disco?
Lo è, non a caso è lì. È una dichiarazione d’intenti.
L’ascolto del disco mi ha portato a riflettere molto sulle atmosfere immerse in un gioco di tensione emotiva, ti cito la coda, quasi implosiva, di Cosa siamo diventati e l’andamento sinusoidale di Colpevoli, per esempio. Vorrei mi parlassi di questa tensione…
La musica è lì per evocare, concepire immagini, amplificare la percezione e quando si affronta un vissuto così meravigliosamente intenso non può mancare la tensione, che forse è il motore di tutto, nella musica come nella vita. Tutto il lavoro che faccio con la band va sempre e da sempre in questa direzione.
Tensione. È intimamente sottesa ai brani, al cantato. Mi ha fatto pensare a Jeff Buckley, alla sua stessa grazia nel toccare l’argomento Amore e nel consegnarlo alla voce in altalene di sussurri e altezze. È solo una mia suggestione oppure potrebbe sussistere questo accostamento? C’è una sua canzone che ti piacerebbe portare nel tuo mondo?
Ti ringrazio per il lusinghiero accostamento. È davvero un peccato aver perso un artista del genere così presto, chissà cosa ci avrebbe regalato. Non c’è un suo brano che vorrei portare nel mio mondo, non ora. Sento l’esigenza di dare spazio solo alla mia voce al momento, solo alle mie parole e alla mia musica. Domani chissà.
Vorrei che mi parlassi del brano che secondo te ha maggiore tensione e che riesci a stento a domare emotivamente durante i live del nuovo tour.
Cosa siamo diventati è sicuramente uno dei brani più intensi e non a caso ho scelto di aprire i concerti con quella canzone. È un racconto che riesce a riconnettermi con quel nucleo emozionale da cui tutto ha avuto origine.
Riesci a gestire con grande equilibrio classico e moderno. Penso alla canzone d’autore che hai avuto modo di omaggiare e penso anche alla tua attitudine rock che mi ha riportato ai Radiohead e non solo, quindi ad una produzione da band. Mi parli di queste due componenti che ti allontanano dal cliché del cantautore voce e chitarra?
Sono sempre stato un amante della musica di matrice british, quindi grande attenzione ai suoni, grandi band. Il mio approccio quindi è sempre stato un po’ da band e solo successivamente mi sono avvicinato alla grande musica d’autore italiana. Questi due mondi si sono prima scontrati, poi incontrati.
Empatia. Mi sembra si possa interpretare in questa chiave la reazione del pubblico per Cosa siamo diventati, no?
Direi di sì. Strano, o forse no. È che tu racconti qualcosa di molto intimo, personale e pensi sia la cosa che odora più di te, dei tuoi stati d’animo e che quindi potrebbe risultare la cosa più lontana da tutti gli altri, forse anche fastidiosa e… invece. Poi però se ci penso bene, è stata proprio questa cosa a farmi avvicinare alla musica. Da ragazzino ascoltavo canzoni e dicevo: “cavolo, è di me che parla” ed era splendido sentirsi compresi, avvicinati. Sono perciò felice che oggi accada con le mie canzoni.
Hai collaborato con molti artisti. Non ti chiedo di loro, ma cosa significa per te e la tua musica “incontrare”.
Condividere, scoprirsi. Le collaborazioni ti permettono di condividere delle passioni, dei punti di vista e impari a guardarti diversamente. Se le affronti con la massima libertà possibile, ti portano in terreni inesplorati, davanti a parti di te che ancora non conoscevi.
Guardando all’estero, fammi un nome per la collaborazione dei sogni…
Eh, ce ne sarebbero una decina. Senza pensarci troppo, così, al volo, ti direi Alabama Shakes.
Se ti chiedessi di scegliere i versi di una poesia per Cosa siamo diventati?
Non saprei. Ne ho lette tante, ma le ho dimenticate tutte.