Torna il Siren Festival nell’edizione 2017, con tutto il carico di aspettative create nelle precedenti tre edizioni di successo. Il Festival è “giovane” ma può vantare di essere già un riferimento nel panorama degli eventi estivi di qualità.
Quest’anno, a differenza dei precedenti, il cartellone è un po’ meno altisonante: sulla locandina non spiccano nomi come The National, Mogwai, James Blake, Editors, ma il programma sembra variare ancor di più nei generi musicali, ingolosendo assai, infischiandosene del rischio di disorientare un po’ il pubblico. In questa edizione 2017 gli appassionati della musica elettronica non possono sentirsi delusi vista la presenza di Trentemøller e Apparat, così come i nostalgici del rock anni ’90 che hanno potuto rivedere sul palco gli Arab Strap e il progetto di Tom Barman (dEUS) TaxiWars; il pubblico indie pop ha goduto dei sontuosi Baustelle; i giovanissimi fan del rap e dell’hip hop hanno potuto assistere alle esibizioni di Ghali e Carl Brave X & Franco126.
Proprio da questi ultimi però vorrei partire, così per togliermi subito il dente dolente: le visualizzazioni su YouTube non sono indicatori di qualità assoluta, e tantomeno sono direttamente proporzionali alla presenza attiva di pubblico. Ghali si è presentato ad un pubblico numericamente non all’altezza del palco principale, per lo più composto da giovanissimi (under 18), completamente fuori dal contesto generale. Forse era intenzione degli organizzatori creare quella commistione di generi e miscellanea di presenze che è usuale nei festival internazionali, ma Vasto non è Coachella, l’Abruzzo non è la California, e l’Italia non è gli States. La distanza tra la musica underground e il “mainstream” qui da noi si sta assottigliando solo di questi tempi, e culturalmente non siamo completamente pronti: un fan italiano degli Arab Strap avrà i conati ad ascoltare Ghali, un esponente di questo genere ancora troppo acerbo, e assolutamente incapace di infondere alcuna curiosità a chi non è già “nel giro”, (tant’è che non conscio di questo già al primo brano porgeva il microfono al pubblico così da non far capire nemmeno cosa stesse cantando). Addio inclusione, vince l’esclusione. Esperimento fallito. Per quanto riguarda Carl Brave X e Franco126, il caso ha voluto che la coda al banchetto degli arrosticini fosse più lunga del previsto: nella vita occorre fare delle scelte…
Per il resto il festival si è svolto come da programma, con un’impressionante precisione negli orari e nei cambi palco.
Una delle qualità più apprezzate del festival è la presenza di ben quattro palchi (anzi, cinque contando la Siren Beach) tra i quali il pubblico può spostarsi inseguendo i concerti preferiti. Il dark side della questione è l’impossibilità materiale di seguire tutti i concerti per intero: oltre alle sovrapposizioni piene, il programma prevedeva un’alternanza fin troppo precisa tra i due palchi principali che imponeva di spostarsi perdendo parte dei concerti alla fine o all’inizio.
Il palco più intimo e suggestivo è all’interno del bellissimo Giardino d’Avalos, con il suo prato verde, le siepi, i pergolati, e la splendida vista sul golfo; questa era la sede dei concerti ad orario aperitivo, quindi quelli che richiedevano maggiore attenzione e riuscivano a creare naturalmente silenzio tra il pubblico attento. Nei Giardini d’Avalos sono da ricordare le esibizioni di Quattro Quartetti (Emidio Clementi e Corrado Nuccini) e Lucy Rose: il primo per intensità e magnetismo, il secondo per delicatezza superiore.
A fianco dei giardini, collegati da una porta ed un breve corridoio, c’è il Cortile di Palazzo d’Avalos. Di per sé questa location non ha nulla di realmente speciale: un cortile di un alto palazzo, non molto grande, pareti disadorne. Sembra di stare all’interno di un grande scatola con sopra il cielo stellato (che in fondo, non è poco). In questo contesto si sono esibite le più differenti band.
Il primo giorno del festival il cortile è stato proprio l’apripista della rassegna, con due tra le esibizioni più interessanti in assoluto: Malihini e TaxiWars. I primi sono un duo composto da Giampaolo Spaziale e Federica Caiozzo (meglio conosciuta come Thony). Un pizzico di elettronica, un bel mix di voci, una musica particolare vagamente anni ’90 con suoni che riescono a stupire tra morbidezza e colori saturi, tra evanescenza e frizzantezza. Si sente che il duo è ancora in una fase di rodaggio (il primo album vedrà la luce nei prossimi mesi), ma il potenziale è davvero enorme e la nostra curiosità altrettanto.
TaxiWars vede invece sul palco un personaggio davvero importante del rock: Tom Barman dei dEUS. Si tratta del suo progetto parallelo con una forte matrice musicale jazz. Il risultato è sorprendente: il carisma di Barman è il combustibile di un sofisticatissimo motore che incrocia il jazz con il rock ed il post-rock. Nel suono dei TaxiWars c’è una sperimentazione che non puzza di follia, ma di efficace intreccio di suoni, cosciente ma senza regole, che vive di un’etica propria, autarchia assoluta. Poi c’è Barman sul palco, le sue movenze e il suo canto sempre perfetto: un frontman la cui esperienza e attitudine si riconoscono lontano chilometri e chilometri. Eccezionale.
Sempre nel Cortile di Palazzo d’Avalos hanno spiccato i concerti di Allah-Las (purtroppo raggiunti solo negli ultimissimi minuti, ma le facce del pubblico dicevano tutto sulla perfetta riuscita del live ricco di divertente rock psichedelico), e degli Arab Strap (volumi altissimi per una band che negli anni ha preso su qualche chilo, ma sempre in grado di far volare i propri fan su altri mondi).
Altra esibizione particolarmente apprezzata è stata quella di Apparat impegnato in un personale dj-set. Il Cortile di Palazzo d’Avalos ben si presta a questo tipo di esibizioni (una scatola buia ma stellata: quale migliore dance floor?) ma le dimensioni ridotte hanno costretto fuori molta gente che, visibilmente infuriata, ha dimostrato la propria delusione. L’organizzazione del Siren Festival dovrebbe tenere ben conto di questa situazione per evitarla in futuro: non deve accadere che chi ha pagato un biglietto per godere di un festival nella sua interezza non possa accedere ad alcuni concerti perchè già troppo affollati; evidentemente qualche errata valutazione a monte è stata commessa.
Particolari problemi di spazio non ci sono mai stati invece sugli altri due palchi: Porta S. Pietro e il principale in Piazza del Popolo.
Il palco di Porta S. Pietro è piccolo, rialzato da terra di pochi centimetri, posto lungo la strada che offre il belvedere sulla costa. E’ all’esterno della zona riservata esclusivamente al festival in quanto i concerti in quello spazio sono liberi e gratuiti. Il palco in questione è stato dedicato principalmente alla musica italiana emergente e più “giovane”, dal cantautorato all’elettronica: tra i nomi principali che si sono esibiti ricordiamo Colombre, Andrea Laszlo De Simone, Giorgio Poi, Gomma e Populous. Un palco che funziona: lo spazio intorno è sempre pieno di pubblico, anche se nell’attraversarlo ci si sente molto vecchi ad appena 31 anni.
Il palco principale di Piazza del Popolo è senza dubbio il più bello, con il cielo che finisce nel mare proprio dietro il palco. Su questo palco si sono esibiti sei artisti: Jenny Hval con la sua particolarissima performance che in qualche modo potremmo definire “folk spaziale”, Noga Erez con la sua spudorata ma efficace attitudine pop meticcia, il già menzionato Ghali, Ghostpoet, Baustelle e Trentemoller.
Personalmente Ghostpoet è stato la sorpresa del festival: un nome che gira ormai da tempo anche in Italia ma che non ero ancora riuscito a vedere dal vivo e che su disco non mi aveva catturato. Sul palco principale del Siren Festival, presentatosi in completo elegante e con una nuovissima band di spiccata matrice rock, ha stupito tutti. La sua figura assume le sembianze di un santone del terzo millennio, un poeta urbano, un po’ reverendo e un po’ anima dannata. Il suo incrocio tra rap e rock è incredibilmente solido: un monolite sonoro. Sul palco la sincronia è ottima, così come la presenza di una voce femminile che ammorbidisce le scurissime tinte vocali di Obaro Ejimiwe (nome registrato all’anagrafe londinese). Batteria e basso determinano il ritmo in modo preciso mentre alla chitarra è concesso di variare tra assoli potenti, distorsioni scenografiche, e addirittura saturazioni di stampo post-rock. Tutto assume un aspetto “importante”. Non c’è un briciolo di leggerezza nell’aria, tanto da dimenticarsi il mare e le stelle appena dietro alle grosse spalle di Ghostpoet. Magnetico, rapisce, cattura, stordisce e poi se ne va appena dopo aver offerto l’unica e splendida boccata d’aria fresca finale (Liiines), tra gli applausi.
Il secondo live di spicco è stato senza dubbio quello dei Baustelle, una band che ha raggiunto forse l’apice massimo della carriera. Perfetti nell’esecuzione, liberi di scambiare qualche parola con il pubblico, e un’enormità di suoni bellissimi. Il concerto dei Baustelle è un trionfo di estetica: tutto sul palco è minuziosamente curato, dalla strumentazione al posizionamento di ogni musicista e ovviamente l’abbigliamento; per quanto riguarda i suoni, maestosi ma comunque capaci di accarezzare la pelle del pubblico, la ricerca maniacale della perfezione è evidente. Il risultato è un live coinvolgente, che alterna momenti più introspettivi ed altri di un particolare divertimento, tanto primordiale quanto elegante.
La musica dei Baustelle ha questo dono: ha un portamento impareggiabile, è capace di indossare diverse vesti e distinguersi tra i tanti, elevandosi, staccandosi di netto (rischiando di apparire snob, ma su questo argomento è lo stesso Bianconi a prendersi in giro sul palco in dialogo con il pubblico). Il vangelo di Giovanni, Betty, Basso e batteria, La musica sinfonica, La vita: la prima parte del live è concentrata sull’ultimo disco L’amore e la violenza, dolce e amaro spaccato di tante vite, microromanzi colmi di poesia e realtà struggente. Charlie fa surf, Un romantico a Milano, Gomma, La canzone del parco, La moda del lento a ripescare da un passato sempre attuale, sempre vicino, immortale. Una bellissima e minimale versione di Bruci la città (brano di Francesco Bianconi, reso famoso da Irene Grandi), una cover di Nick Cave & the Black Seeds (Henry Lee), la magnifica cavalcata dell’inedito Veronica n.2, e la conclusiva La canzone del riformatorio. Un concerto da ricordare, in un contesto ideale per i Baustelle.
L’ultimo live che si è tenuto sul palco grande di Piazza del Popolo è stato quello di Trentemøller e la sua band. Un live particolare, tra brani più delicati ed eterei, e altri incalzanti ed energici. Il compositore danese (difficile descriverlo diversamente con le limitanti definizioni di dj o producer) è un personaggio fuori dagli schemi tipo della musica elettronica. Sul palco non ha quel carisma tipico di chi sta dietro alla consolle: lui parla con la sua musica e basta. Alcuni dei brani di Trentemøller sono davvero belli, ma su disco forse rimane qualche spazio in più per la fantasia. Di fronte ad un palco il pubblico non ha scampo: la musica è quella, i musicisti, le luci, tutto è definito e senza possibilità di aggiungere altro. E così ci si accorge della bravissima vocalist, la quale però mentre canta assume delle plastiche pose che sembrano catapultarla direttamente dagli anni ’80, oppure ci si accorge del palco un po’ scarno, con delle futuristiche sagome illuminate alle spalle della band, ma poco altro a riempire e ad offrire un riscontro visuale. Insomma, un bel concerto ma, per fortuna tra il pubblico pian piano è avanzato un palloncino a forma di Pimpa a dare un po’ di colore e a strappare un sorriso.
Il Siren Festival però non è stato solo questo. Per quanto il centro nevralgico dei concerti sia stata la parte storica della città di Vasto, anche la spiaggia di Vasto Marina ha svolto un ruolo importante. In uno dei bagni sulla costa ha trovato spazio anche quest’anno la Siren Beach, dove il pubblico ha potuto occupare il tempo del giorno godendosi la spiaggia, alcuni concerti pomeridiani (da segnalare Old Fashion Lover Boy, Persian Pelican e la festa conclusiva con Istituto Italiano di Cumbia All Star, capitanato da Davide Toffolo) esibizioni e dj set notturni (in particolare Demonology HiFi di Casacci e Ninja dei Subsonica). L’unica pecca di questa location è che di fatto si trattava di un bagno del litorale, occupato parzialmente dal festival: gli spazi non erano molto ampi, il palco era ricavato in una zona di passaggio per tutti i clienti del bagno (inoltre al bar non erano accettati i “token”, l’unica moneta circolante negli spazi del festival). Per quanto la combinazione spiaggia e musica sia piacevole, il rischio è di non riuscire ad apprezzare né l’una né l’altra. Anche su questo gli organizzatori dovrebbero tentare di lavorare ancor di più per sfruttare al meglio tutte le risorse che la splendida zona di Vasto offre.
In conclusione il Siren Festival, anche in questo 2017, si è confermato un evento memorabile, da apprezzare tantissimo. Il Siren può diventare adulto ma in qualche modo deve cercare di non crescere troppo (in termini di quantità di pubblico non si può esagerare correndo il rischio di snaturare il clima di splendida vivibilità che fino ad ora ha offerto). Anche parlando con gestori di attività (b&b e locali) ciò che emerge è una assoluta e convinta fierezza di poter ospitare questo festival nella propria città, oltre che un apprezzamento per il riscontro turistico che giova a tutta la zona. Siren Festival fin dagli inizi ha puntato tutto sulla qualità della proposta musicale (difficile da trovare nel centro-sud Italia) e il potenziale del territorio in termini di accoglienza turistica, bellezza naturalistica ed enogastronomia: su questa strada deve continuare, con l’augurio di migliorarsi sempre perchè il Siren Festival il meglio se lo merita davvero.