Il Meltdown Festival rappresenta uno dei più importanti appuntamenti estivi della scena londinese. Sin dal 1993 l’evento che si tiene nella splendida Royal Festival Hall a Southbank viene curato quasi ogni anno da un artista diverso. Quest’anno la 25° edizione del festival è stata curata da Robert Smith, cantante e compositore dei The Cure: “Ho finalmente risolto il mio puzzle psichedelico” ha affermato poco prima dell’inizio del festival. Ed è stato bello vedere tra i tanti artisti presenti, i migliori della scena secondo Robert, anche i JoyCut. La band bolognese ha ormai all’attivo numerosi concerti in giro per il mondo, soprattutto dopo l’uscita di PiecesOfUsWereLeftOnTheGround nel 2013 che li ha proiettati lungo un percorso di circa 300 date tra Nord America, Asia ed Europa. Il Meltdown Festival rappresenta un punto fondamentale per la carriera musicale della band guidata da Pasquale Pezzillo che abbiamo voluto incontrare dopo il concerto, una performance molto interessante, una delle più belle forse, animata anche da tante novità musicali.
[Le foto live sono state scattate da Chiara Ceccaioni durante l’esibizione del 15/06/2018 al Meltdown Festival]
Pasquale, quella di oggi è una giornata indimenticabile per i JoyCut. Essere presenti al Meltdown, quest’anno curato da Robert Smith, è a dir poco emozionante. Cosa ha rappresentato per voi questa partecipazione?
Ti è mai capitato di sentirti vivo, così vivo, da muovere tutti i pianeti con il suono del pensiero? Di innamorarti ripetutamente sotto il peso di mille knock-out ad ogni angolo di strada? Immaginando le stanze, i poster, la voce, i sogni di quelle ragazze?
È tutto così maledettamente difficile, è sempre tutto così nascosto, custodito nello scrigno della tua inaccessibile intimità, pura fantasia, visione di una realtà che non carezza il reale. Tu ci sei, ma nessuno ti vede! Non hai quella propensione caratteriale per chiedere di poter giocare, non ce l’hai quella “spocchia” e, di conseguenza, nessuno ti chiede di partecipare.
Cosa ha rappresentato per noi Meltdown? Essere visti, riconosciuti, toccati dalla tenerezza.
Sai, è vero che si può cadere sette volte e che l’importante è rialzarsi otto. È vero che la sofferenza cura. È proprio così: incassare aiuta a non andare giù, conforta, educa a resistere. “Sentire” il cuore, apprezzare il valore del dolore. Quando però arriva una “carezza cosmica”, il sole che filtra attraverso le foglie degli alberi non è più soltanto un kanji che profuma di letteratura, l’anima si commuove, i respiri si affannano fieri, motori per una mongolfiera lieve, che leggera si eleva. Dall’alto, il quadro del mondo assume una dimensione più ampia, ed il centro si moltiplica fino a deflagrarsi, tanto quanto i mirabili e possibili nuovi punti di vista.
È stato un onore immenso essere headliner di un festival così prestigioso, fra una manciata di Artisti di riferimento che hanno segnato la storia della musica globale, scelti personalmente dal nostro idolo di sempre. Eravamo dove da sempre avremmo desiderato di essere: ad un passo dalla Luna.
E’ stata un bellissima sorpresa ascoltare in apertura le Indian Queens, band londinese davvero molto interessante. Sappiamo che sono state scelte da voi; secondo quali criteri?
Robert ci ha proposto di selezionare l’opening di pertinenza; desiderava fossimo a nostro agio, felici, soprattutto nel condividere il palco con una musica che più fosse affine al nostro immaginario.
Ci ha offerto un privilegiatissimo accesso ad una lista interminabile di progetti che opportunamente aveva immaginato potessero valorizzarsi con noi, nell’osmosi di una giornata irripetibile e significativa.
Alla fine ne abbiamo scelti tre su tutti e le Indian Queens erano fra le nostre favoritissime.
Ci ha colpiti subito, d’impatto, la maturità del suono, l’eleganza nell’approccio compositivo, la assoluta forza live, la luce nella vocalità, la determinazione del loro percorso finora.
L’intero live è stato, come da vostra caratteristica, ricco di immagini oltre che di suoni. Quanto sono importanti per voi le percezioni del pubblico?
Sono percezioni ed in tal senso vanno considerate. Da tempo siamo convinti che la musica non sia soltanto suono, non sia soltanto narrazione. Siamo, da sempre, e senza alcuna malinconia, alla ricerca incondizionata di una chiave che apra finalmente alla poligamia culturale, che punti alla pluri-percettività, che inviti al pensiero, alla riflessione, alla consapevolezza di “non essere soltanto nostri”, di appartenere al tutto, agli altri, al pianeta, al sistema di scelte ferocemente in atto.
Non sempre siamo accompagnati da immagini, ma quando se ne presenta l’occasione, ad uno stacco, ad una pausa, sostituiamo un fotogramma che vada oltre ogni incertezza espressiva, un frame che dica tutto quel che c’è da dire: ad esempio gli occhi di un bimbo innocente, non un migrante, non un rifugiato, non un nemico, non nostro figlio, solo un bambino, che ha il diritto sacrosanto e pieno di volgere il suo sguardo al futuro.
Utilizziamo ogni vettore sensibile possibile, dalle saturazioni alle immagini, ma non solo; ci sono molti silenzi, dilatazioni, propagazioni in fade out, fino all’uso della luce.
Può certo apparire una attività complessa, ma certamente non è complicata. Non ci vogliono mirabili ragionamenti scientifici. È un tuffo autentico nell’estasi dell’istante. Il pubblico è un’ombra leggera che ti accompagna, sempre, ti stimola, ti ammonisce, ti suggerisce, ti insegna a guardarti dall’esterno.
E voi come reagite a tutto questo?
Noi abbiamo il dovere di saperlo ascoltare. Non è detto che si debba essere sussunti a quella volontà, ma occorre restituirgli la veridicità del nostro pensiero, aprirsi a tutta la vulnerabilità che ci identifica come individui fragili e spaventati, schierati o completamente persi, è l’unica via che conosciamo per ringraziarlo.
Un pubblico, che liberamente ti sceglie fra tanti, non merita semplicemente di assistere, merita di partecipare, di vivere una esperienza il cui fine ultimo è l’insieme.
In fin dei conti, immagini, visual, animazioni, sono solo uno fra i codici espressivi possibili, a corredo di una avventura più profonda. A volte basta soltanto chiudere gli occhi per vedere veramente.
Mi pare ovvio considerarlo pubblico attivo; la maggior parte di noi è “gruppo di acquisto” ed ognuno è “homo oeconomicus”, quotidianamente subissato da trilioni di offerte. Finalmente, se non vogliamo essere il “pescato del giorno finito nella rete”, siamo chiamati a scegliere, a vestirci di responsabilità.
Per questi ultimi dissidenti, JoyCut è un luogo dove rifugiarsi, un viaggio terapeutico, nel bene e nel male.
Siamo una delle infinite rappresentazioni, in musica, di quelle sfumature dell’intera esistenza, di quel lato scuro e buio che è necessario, se si vuole vedere nitidamente la volta di tutte quante le stelle.
È forse meglio cacciarlo via lo sfondo oscuro? In cambio di un leggiadro e funzionale pensiero positivo a tutti i costi? Facendo finta che tutto vada bene, in una “Plastic City” dove è normale passeggiare accanto ad essere umani considerati scomodi e fastidiosi rifiuti?
La musica non dice bugie! Ci sono 25.000 nuove release al giorno, la democratizzazione tanto acclamata è già in atto. Che ognuno sia consapevole dei propri ascolti e responsabile delle proprie scelte.
Stiamo con il postulato fondativo del Reset Festival: “Io Sono la Musica che Ascolto”.
Sono passati cinque anni da PiecesOfUsWereLeftOnTheGround. Durante la seconda parte del concerto abbiamo avuto il piacere di ascoltare dei brani inediti. Il nuovo album è pronto? Ce ne potreste parlare?
Il nuovo album è pronto, vivissimo, l’abbiamo eseguito in tutta la seconda parte del set preparato per il Robert Smith’s Meltdown. Un intreccio di saturazioni orchestrali e dilatazioni sonore intrise di paesaggi ritmici narrativi, passaggi commoventi che sottovoce mirano alla leggerezza, alla liberazione da questa civiltà.
C’è molto Oriente, Africa, c’è assenza, c’è sublime, eppure la profondità di questi abissi ideologici non intimorisce, anzi, ci chiede di sbirciare, di avvicinarci.
Abbiamo rivisto la registrazione video integrale dell’esibizione di Londra. È potentissima, non vediamo l’ora di metterla in opera ancora, presto, subito. Ho così paura di morire che vorrei lasciare almeno una traccia di questo viaggio che non ho certo scelto di intraprendere.
Da un lato, “pubblicare” allevierebbe il tremore della fine, ingenuamente spingerebbe a pensare di poter segnare quel solco fronteggiando il fluire del tempo, fermando e fissando per sempre questo istante: una fotografia di ciò che si é, se non altro energia a disposizione dell’universo.
Dall’altro, “pubblicare”, rendere visibile, accessibile, aprirsi alla violenza cruenta dell’incomprensione, dove la critica è oramai del tutto assente, sarebbe un semplicistico frutto di puro edonismo.
Ci vuole un senso profondo invece, qualcosa di vero da concedere, al di là del piacere di farlo. Altrimenti sarebbe un atto di incosciente menefreghismo nei confronti della propria opera, del proprio seguito, e forse, mai come in questi ultimi anni, bisognerebbe procedere proprio in controtendenza: attendere, far sì che il tempo riacquisisca valore, che la cifra del proprio “sentire” maturi, seguendo i ritmi reali della natura.
Eccoci, dopo cinque anni di apparente silenzio, parlare di un nuovo lavoro. In verità abbiamo urlato e vissuto, valicato colonne e raccolto appunti di viaggio.
Ed anche se produrre un album, in questo momento, è come giocare a dadi con la sorte, forse è giunto il momento di riversare e mostrare il contenuto delle nostre elaborazioni, posto che interessi a qualcuno.
Credi che Meltdown sia stato d’aiuto in questo?
Londra e Meltdown sono stati un banco di prova incoraggiante, entusiasmante, contagioso. Ma vorremmo che questa nostra “creatura” fosse condivisa nei suoi principi, totalmente, trattata con cura. È una nostra urgente esigenza. Chi darebbe voce, oggi, ad uno stadio di ricerca in atto? Laddove non vi è ancora corruzione? Chi ha davvero il coraggio di lottare per una speranza? Chi preferisce una “radice” dalla forma mentis analogica al “vetro” scivoloso, graffiato e freddo dello sterile terreno digitale?
Il digitale qui è da intendersi ovviamente nel merito del sistema di valori che promuove: un acceleratore casuale di processi innaturali, privi di amore, prodotti OGM sugli scaffali di un ipermercato, inaugurato ieri e pronto ad essere smantellato già domani.
È una ambizione superba, la nostra, ed è giusto che lo sia. Siamo così lontani e disgustati da certe logiche di mercato attuali, che ogni qual volta ci rendiamo conto, consapevolmente, di esserne parte, danziamo a favore della pioggia: come si fa a trovare la forza di condividerle?
Il nostro è un guado fuori misura. Non muoviamo quegli interessi, non spostiamo quei numeri, non bramiamo le “one second chart”. E parlarne in questi termini, ci mette nella condizione di essere fraintesi, quasi vittime della parabola da “la volpe e l’uva”. E non vogliamo sia così. Vogliamo invece che passi questo messaggio: ci sono “isole felici”, ci sono professionisti consolidati, innamorati del loro mestiere, oracoli da frequentare. Ci sono giovani pieni di entusiasmo e talento. Ci sono ancora analisti di mercato ispirati, capaci di dare il reale valore alle cose: educati a pensare che le cose migliori non siano “cose”. Ci sono numeri e “numeri”, si possono muovere economie ed “economie”. C’è l’ossessione per un solo paese, per un solo dominio, e c’è la apertura verso tanti paesi, la bellezza di scoprire che il confine è un punto di incontro e non un filo spinato di separazione. Il nostro è un corso di impresa che pur non senza difficoltà ha ancora più ambizione di quello che si possa immaginare. Lottiamo per fare ciò che ci fa stare bene, professionalmente, senza pretendere alcunché ad ogni costo, senza imporre nulla a nessuno.
Posso dire che Joycut è un avamposto che ha dentro il nucleo intrepido del dinamismo, non è figlio di questo tempo, non tende, non cede, è frutto di riflessioni, spaventato da questo scorcio di fato ma ingenuamente proiettato a scoprirne tutti i limiti, a ricercare tutto l’ignoto che fluttua nelle nostre potenzialità: ha l’ambizione di volersi superare per restare veramente, il ché significa coraggiosamente accettare di determinarsi nel futuro. Così è già stato per PiecesOfUsWereLeftOnTheGround. Conosciamo quella sensazione. Il nuovo non è il “qui ed ora”, quello è il mercato. Il nuovo è ciò che volge lo sguardo a ciò che ancora non c’è e che orienta il mercato.
Siamo al servizio della musica non la usiamo per metterci in mostra.
Libertà con il peso della solitudine quindi?
Può darsi. Ma se ci credi alle favole, le favole esistono e Meltdown ci ha fornito l’occasione di suonare la musica che desideriamo, di essere davvero i professionisti che sogniamo di diventare, non abbiamo avuto nessun timore nel “tirar fuori”, finalmente, tutte quelle nuove composizioni, consegnandole, nel momento più magico della nostra carriera, al luogo più adeguato possibile, in omaggio alla persona che, fino ad oggi, senza mezzi termini, è stata l’unica che ha davvero creduto in noi, riponendo una fiducia cieca e suggerendo all’industria una direzione da seguire. Robert Smith ci ha disvelati al Mondo.
Il Meltdown Festival rappresenta un’ulteriore prova che la vostra musica è molto apprezzata all’estero più che in Italia. Eppure come dici anche tu non dovrebbe essere così, non ci dovrebbero essere dei confini musicali. Ma allora perchè nel nostro paese si continuano ancora a trascurare alcuni generi musicali?
Abbiamo paura di scrivere pagine nuove. Seguiamo espedienti e soluzioni sicure. Questo vale anche per gli artisti. Ci sono molti principi paradigmatici nell’industria musicale. Certi davvero semplici ed infallibili. Uno fra questi, e per alcuni ancora ultra-determinante, é: “prima devi fare successo nel tuo paese, poi potrai spostarti altrove”. La filosofia del presidio. Se ci si pensa, non è un principio sbagliato, né irragionevole. Certamente è limitato, perché legato ad una sola lente di analisi: il mercato, l’economia.
Cosa vuol dire pertanto fare successo, seguendo questa lente? Significa “muovere” numeri, attirare persone, riempire i locali, far felici i promoter, far girare il sistema produttivo, creare un formula virtuosa che permetta ai musicisti, al team, ai tecnici, alle agenzie, a tutta la filiera coinvolta di poter essere gratificati dal e del loro lavoro. Questo è quanto. E questo non significa che vi sia un genere più significativo di un altro. Se funziona l’elettronica, questo principio aderisce a quel genere, se funziona la trap idem. Il cantautorato? Stessa cosa.
L’economia è assoluta, sciolta da etiche, morali, gusti, preferenze. Viaggia in via preferenziale su certi canali, non importa che siano Social, Radio o TV. L’equazione è ancora, sempre, la medesima: “Vale solo ciò che rende”. Oggigiorno addirittura ulteriormente alterata: “È credibile solo ciò che rende”.
Quindi non si tratta di trascurare alcuni generi musicali?
Non credo che nel nostro paese si trascurino certi generi musicali. Piuttosto mi pare evidente che non si sia capaci di salvaguardare, supportare, preservare coloro che puntano ad innovare, costruendo valore creativo a lungo termine, si alimenta ciò che già funziona, seguendo ed inseguendo i trend del momento, compiacendo il placet di una domanda incerta, al di là della tipologia di musica.
Ci sono anche esiti e favori che si impongono dal basso, forti di un sano consenso popolare. Fattori le cui incognite di successo favoriscono la fantasia narrativa, non certo la creatività di impresa o la ripetibilità tecnica di operazioni destinate a restare uniche, case study irrilevanti perché non esemplificabili né riproducibili. Non ci si interroga ovviamente sul destino di questi tentativi andati a buon fine, si raccoglie, si scappa. Non esistono “disastri di impresa” o prese di coscienza; seppur prendere un progetto, spremerlo fino all’osso, ricavarne il più possibile “dopando” il regime, sostituirlo con la “next big thing” sia oramai una prassi comune.
I JoyCut che posizione hanno preso in merito a questo?
Non siamo mai stati ossessionati da questo sistema, non ci sentiamo in credito perché trascurati nel nostro paese. Non ci siamo mai allarmati per questo tipo di “insuccesso” seppur certo ci siamo interrogati sulla nostra dimensione, aprendoci sempre al tavolo del dialogo con quei professionisti con i quali abbiamo lavorato.
Semplicemente, siamo giunti ad una conveniente conclusione: ognuno ha e deve avere la piacevole libertà di “dare il nome alle cose”. Per noi il successo abita altre declinazioni.
Successo è l’essere testimoni attivi di una coerenza che fa della longevità e della qualità il primo tassello di garanzia.
Per noi quegli artisti che stanno in piedi, a testa altissima, da 10, 20, 30, 40 anni, producendo musica pionieristica, viva, assolutamente sostenibile, sono paragonabili ad un vino buono, che si apprezza col tempo e nel contesto adeguato, ad una vittoria attesa trent’anni, ad un bacio eterno sotto la pioggia, ad un team che fa della sua storia e dei suoi colori il suo emblema, non si affida ai singoli falsi idoli ma persevera nella sua consistenza.
La nostra è una piccola astronave che vuole e deve essere leggera per poter esplorare, non può radicarsi satolla di carburante, su un solo pianeta. I confini musicali non esistono, né sono mai esistiti.
Sei mai stato nell’ufficio di un discografico? Alle pareti puoi osservare in bella mostra quadri e poster di Echo and the Bunnymen, Police, Lou Reed, Springsteen, The Smiths, Pink Floyd, Diamanda Galas, Tenco. Poi però firmano tutt’altro e dicono di voler “costruire carriere”. Secondo te perché? Qual è la “lente” che scelgono di utilizzare per osservare la realtà?
Se non hai il coraggio di ribaltare un certo paradigma non potrai generare valore. Il punto su cui riflettere è un altro, quasi sempre il valore si genera da sé, non si costruisce.
Certo non attraverso algoritmi calcolati a tavolino. Al massimo il valore si scova, si accompagna, si stimola ma ci vuole tempo, un tempo che oggi non c’è più; ci vuole sensibilità, rispetto, passione, amore. Ed oggi, se e quando arrivano “the big hands” non è detto che quel valore prezioso venga custodito, che si concorra per preservarlo, che si lavori perché perduri; talvolta lo si distrugge senza versare una lacrima.
Che cosa devono fare allora gli artisti?
Siamo tutti chiamati ad opporci a questo fallimentare declino della bellezza. Gli artisti non devono mollare, non devono farsi schiacciare, non devono aver paura di osare, non devono vendersi, hanno un compito, il solito compito, molto preciso, che vale più della vita stessa: dissentire, diseducare, distruggere il pensiero dominante, continuare a creare, scoprire, offrire speranza, come onde del mare sul disastro.