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“Can we start this again?”: Editors @ Paladozza, Bologna 29-11-2018

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Forse è un caso, ma il pensiero che quasi esattamente tre anni fa ci siamo trovati nello stesso palazzetto di fronte alla stessa band rende ancor più particolare l’evento in programma al Paladozza di Bologna.
Era il 28 Novembre del 2015, gli Editors avevano da poco pubblicato il loro quinto album (In dreams) e nelle nostre menti erano stampate le immagini del Bataclan di Parigi. Un concerto che fu una riscossa di vita, un “partecipare” che racchiudeva significati ben più ampi e profondi grazie ad un rock dalle tinte scure ma straordinariamente vitali.
Oggi, 29 Novembre 2018, ci troviamo di fronte la band di Birmingham a presentarci un nuovo album (Violence) uscito da diversi mesi, collaudato nella proposizione live.
Il palazzetto bolognese è pieno, o quasi, quando le luci si spengono al termine della pausa che ha seguito l’esibizione del cantautore Andy Burrows (chi non ha perso ore a cercare parcheggio si è potuto godere anche il duetto con Tom Smith).
Il palco è buio, si intravedono le sagome dei musicisti e dietro di loro, gigantesca, l’immagine di copertina di Violence. Corpi nudi che tendono i muscoli in un movimento immobile, le forme si confondono e la mente si stranisce: un’immagine indecifrabile ma potente.
Il concerto inizia sulle note di The boxer, dal terzo album della band datato 2009. Un inizio cupo: un percorso al buio che continua dettando il ritmo del nostro passo con le note di basso di Sugar da The weight of your love. I cori di Hallelujah (So low) completano il rito di iniziazione. Con All sparks tutti (ma proprio tutti: pubblico band e tecnici del suono) sono liberi, sciolti, sono dentro al concerto al 100%. Dal passato continuano emergere brani che rappresentano la cifra stilistica degli Editors, portatori sani di quella darkwawe – post punk che è riuscita a farsi strada anche negli anni 2000: An end has a start (dall’omonimo album) è una furia di ritmo e potenza; Fingers in the Factories è la bellezza di quella chitarra tagliente e dilatata, fredda come l’aria che c’è fuori dal palazzetto questa sera a Bologna. Con Darkness at the door il suono si riempie di colori e luci. Chiamiamola leggerezza, chiamiamolo pop, o semplicemente ossigeno necessario. L’ascesa musicale dispensata dal palco entusiasma molto di più di quanto non riesca su disco. L’incedere lento e sinuoso di Salvation è un inconfondibile preludio della tempesta sonora che si sta per abbattere. Il brano pulsa come un cuore nero petrolio, e veste dei panni dark sopra un’anima gospel. La coda di Salvation si fonde perfettamente all’intro di della titletrack dell’ultimo album. Violence, con la cassa che picchia in quattro quarti, i suoni elettronici (dispensati dal poliedrico Elliot Williams) che dipingono uno scenario di modernità claustrofobica figlia dell’industrial. La voce di Tom Smith è impetuosa, il suo corpo si tende e si contorce seguendo ogni suono, un nervosismo che è simbiotico con la sua musica. I suoni liquidi di No harm offrono ristoro alla nostra sete interiore. La voce si fa profondissima su un tappeto digitale che ci innalza, sempre di più, portandoci a sfiorare il cielo con un dito proprio nel momento esatto nel quale entra la chitarra di Justin Lockey. Ancora dal passato Bullets, A ton of love, Formaldehyde e la preziosa delicatezza di Nothing. Dal presente l’elettricità di Nothingness.
La band dal palco percepisce tutta l’energia proveniente dal pubblico: ogni brano termina con un “Grazie!“, con pollici alzati verso la tribuna e plettri lanciati sul parterre.
Il basso felpato di Ocean of night è un balsamo per il cuore (merito di Russel Leetch); la chitarra di Blood riapre le ferite, i tagli, per noi “tagli di gioia” (proprio come vengono definiti da alcuni cari amici presenti in platea). Dopo la doppietta Salvation/Violence, gli Editors hanno altre due pallottole da esplodere insieme: Papillon e Magazine. Il primo brano, sicuramente il più famoso nelle sale dei rock club, stordisce il pubblico con una forza ossessiva; il secondo brano stupisce per la schizofrenica alternanza di quiete e disastro, di angeli e demoni. Sfuggenti saluti portano la band a ritirarsi per pochi istanti. Il rientro sul palco vede Tom da solo alla chitarra con The weight in una versione che potrebbe essere colonna sonora di un film western. Dopo l’orecchiabilissima Cold, il pubblico si scatena su The racing rats: tutto il palazzetto si è deciso a saltare all’unisono. Il ritmo dettato dalla batteria di Edward Lay è un elemento fondamentale di questa band, ed è proprio su quel ritmo che in Munich il pubblico continua a scatenarsi.
Lo sappiamo tutti che le luci si stanno per spegnere, il concerto finirà, ma c’è ancora tempo per un brano, e sappiamo quale sarà: Smokers outside the Hospital doors.
We’ve all been changed / From what we were / Our broken parts / Smashed off the floor. / Now someone turn us around / Can we start this again?
I saluti della band. I saluti alla band. I saluti ai tanti amici che ritroviamo questa sera al palazzetto, qui riuniti da ciò che ci rende simili.
Il rientro a casa canticchiando, farfugliando quella frase, una domanda che questa sera trova la risposta.
Sì. Riusciremo a ricominciare.

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