Anche per questo 2018 LostHighways ha stilato le sue classifiche.
Di seguito la classifica dei nostri venti migliori dischi stranieri!
20. Opend Mind: The best of Blackfield
Di solito i cosiddetti “the best of” possono non avere senso, ma per certi progetti come i Blackfield non vale perchè si riesce a mettere a fuoco in una sequenza perfetta di 15 brani tutta l’essenza e l’originalità del sound della band. Il giusto punto di incrocio tra Beatles, Talk Talk e The Alan Parsons Project. I Blackfield sono stati una bella ed intensa pagina di pop alternativo di questi ultimi anni. Per chi ama il progressive-pop e se li è persi.
19. Masana Temples – Kikagaku Moyo
Al quarto album in sei anni la band di ex buskers di Tokyo mette definitivamente a fuoco le proprie ambizioni raggiungendo quell’equilibrio di linee circolari e simmetrie ben sintetizzato dalla ragione sociale, traducibile con schema geometrico, anche grazie al contributo del produttore Bruno Pernadas, voluto dalla band al punto di spingersi fino a Lisbona per le incisioni. È in Portogallo che si concretizza una geometria di fantasiosi origami, trame psichedeliche e complessità progressive che si amalgamo alla tradizione del Sol Levante con una purezza naïf rispecchiata dal fiabesca copertina dell’illustratrice Phannapast Taychamaythakool.
18. Egypt Station – Paul McCartney
L’infaticabile Paul mette a segno un altro colpo, il diciassettesimo da solista. Il concept che ne è scaturito, ispirato da un vecchio disegno dello stesso Paul, rimanda al passato, ma senza nostalgia e soprattutto senza inutili ripetizioni. Con Opening Station si entra in stazione come nel teatro immaginario di Sgt. Pepper’s, dove troviamo ad accoglierci il piano malinconico di I Don’t Know, con quella voce al miele che non perde fluidità, anzi, acquista col tempo aromi e sapori, sulla collaudata cadenza andante che risale a Let ’em in da Wings at the speed of sound (1976). A 76 anni suonati c’è ancora la fresca inventiva di una linea di basso vivace, fluida, di sostegno solido e colore cangiante come quella di Dominoes, memore delle costruzioni armoniche dei Wings e dei loop psichedelici beatlesiani, rifatti qui con la vecchia tecnica analogica dei nastri ad anello.
17. Dissolution – The Pineapple Thief
Il momento storico di massima connessione e vicinanza dell’umanità coincide con quello di massima dissoluzione sociale. I social network non sono il luogo di scambio socio-culturale che pensavamo, sono diventati lo specchio di Dorian Gray, dove si rivelano i nostri spettri maligni e si liberano i nostri istinti primordiali. Questo è il tema centrale delle canzoni che compongono il dodicesimo album in studio dei Pineapple Thief. Il sound della band di Bruce Soord è ancora una volta denso di sfumature, che non permettono una facile classificazione di genere. Siamo certamente in zona post-progressive dove uncini melodici di matrice pop si alternano sapientemente a climax ascendenti di chitarre elettriche, scandite da un drumming suadente e ipnotico senza eguali.
16. S/T – Starcrawler
Da Los Angeles un manipolo di ragazzi riesumano il sogno del vintage rock’n’roll. Lei, Arrow de Wilde, sfiora l’anoressia, sembra una Kurt Kobain femmina. Gli Starcrawler non inventano nulla, ma riascoltare quei riff intrisi di movenze grunge, di graffi hard-rock che hanno come unico scopo farti alzare il culetto dalla sedia e sbatterti con la testa su e giù, non è una cosa da poco. Le canzoni le sanno scrivere. Emergono senza talent show, si fanno produrre il disco d’esordio da Ryan Adams. 28 minuti per ricordarci che il rock è questo, che è flusso a cui ci si deve abbandonare senza paracaduti. Un rock sciamanico, lisergico, sporco di cui si sentiva la mancanza. Promettente esordio.